Il Festival di Bersani tra operai e canzoni

Aaahhh, che sensazione familiare. Quel lieve torcicollo, quella tensione dei muscoli appena sopra le spalle, quando giri la testa sempre nella stessa direzione. Bersani doveva sentirsi a casa, anzi a Montecitorio. Lì in terza fila a sinistra, settore corridoio, appena dietro il golfo mistico dell'orchestra, e quella posa forzata verso destra, come quando devi tenere d'occhio Fini alla Camera. Irresistibile, folgorante, l'avanzata del leader del Pd dalla decima posizione (temuta alla vigilia) fin quasi sotto il palco. Quasi, perché la grana resta la par condicio, e in questa finale di Sanremo è Costanzo a complicare il weekend di relax del segretario. Il baffo nazionale intervista tre operai licenziati e cassintegrati della Fiat di Termini Imerese (quelli di Pomigliano d'Arco erano stati ignorati dalla Clerici la sera prima), e la poltrona di PiGi diventa un letto di Procuste. Anche perché il talk-show càpita dopo i moti del pubblico in teatro contro il principe savoiardo, e il clima è elettrico. Maurizio chiama in causa Bersani, e partono i ruggiti della galleria. Il segretario abborraccia una dichiarazione: «Avete fatto benissimo a ospitare i lavoratori, non è possibile mandarli sui tetti, dobbiamo costringere la Fiat a riaprire il tavolo». Ma la platea gli è ostile, rumoreggia come se avesse cantato male. Maurizio prova a tacitarli, ma Bersani si arrende: «Fermiamoci qui». Subito dopo è ovazione per Scajola che chiede «l'impegno di tutti, maggioranza e opposizione». Non lo lasciano mai in pace, povero PiGi. Nel pomeriggio, era sbottato: «Basta con la sinistra dei sensi di colpa, divertiamoci, è sabato sera». Come il Fantozzi davanti alla "Corazzata Potemkijn". Del resto, era venuto qui in Riviera perché la figlia Elisa l'aveva tirato per la giacchetta per anni. Alla fine lui cede e si ritrova in mezzo a un casino. Entrando all'Ariston aveva trovato il modo di stringere alleanze antimonarchiche con quelli di FareFuturo («Uno sciopero della fame se vince Emanuele Filiberto? Mica male, vado a panini, del principe non penso benissimo») e sopratutto di ribadire che lui non era qui «per fare passerella elettorale», perché «amo la musica», e chissenefrega della crisi. Lui ha spalato fango a Firenze da ragazzo, mica come Bertolaso. È venuto il momento di divagarsi. Se proprio scontro politico deve essere, si incrocino le puntine del giradischi e sia duello. A Berlusconi PiGi dedica "Fin che la barca va", e ecco che gli volano in testa i 45 giri di "Bella Ciao" (a Bersani con simpatia da Bonaiuti) o "Una lacrima sul viso" (pensata con affetto dalla Boniver). Ma il segretario se ne impippa, lui sa quali testi e melodie servano per le sorti magnifiche e progressive del Pd. Vasco, ora e sempre. Quel signor Rossi che lui sognava di intervistare per Youdem, non appena insediato al vertice del partito. Quel rocker leggendario che gli ha fornito l'ispirazione per i manifesti delle primarie ("Voglio trovare un senso", quando nella canzone il verso successivo ricorda che "un senso non ce l'ha", 'sto progetto politico). Quel mito, soprattutto, che gli ha suggerito con il suo esempio la strategia dell'Ariston. Emozionato all'idea di poter salutare in camerino la Clerici, Bersani sospirava con espressione grave e compunta: «Se Vasco non fosse venuto qui all'inizio degli anni Ottanta, a cantare "Vita spericolata" e "Vado al massimo", oggi non sarebbe quel faro che è. Noi del Pd dobbiamo riconquistare il cuore della gente in questo modo. Si può ripartire anche da qui». Più o meno in trent'anni, si potrà costruire un'alternativa democratica, o almeno un palco per una tournée rock. Giura PiGi: «La canzone giusta per il partito è sempre di Vasco, è "Siamo solo noi"». Poi però scivola via nella notte, e al dopofestival medita di intonare Celentano. Non gli viene in mente che l'inno giusto per il Pd è quello demenziale di Elio e le Storie Tese: "La terra dei cachi".