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Il telebucatino che piace al popolo

Festival di Sanremo 2010, la conduttrice Antonella Clerici col cantante inglese Steve Edwards

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Per una volta, la critica senza appello al festival di Sanremo è riuscita a unire i reazionari di destra e le firme pennute dei quotidiani di sinistra. Marcello Veneziani se la prende con «l'Italia peggiore» fuoriuscita dagli schermi nelle forme poppute della Clerici, Francesco Merlo sguaina la spada contro «il trash nazionalpopolare della canzone, dello spettacolo, della donna italiana», ma sono solo due casi tra i tanti, è generale il tiro al bersaglio di intellettuali, giornalisti, critici contro questo Sanremo che realizza il prodigio maligno di non piacere alla gente che si piace ma di rastrellare ascolti bulgari. Così si ripropone la solita frattura che parte dalla cultura e arriva all'antropologia: la conferma che quello che gusta gli intellettuali normalmente non piace al popolo, e tremendamente viceversa. Potrà anche sbagliare il popolo, sarà certamente così, anzi, ha per esempio ragione Michele Serra ad annotare che il ripescato «Italia amore mio», il devastante prodotto della combriccola sgangherata del Pupo, del Principe e del Tenore, rende ridicola la destra patriottica e la rende una pappa «nazional-trombonesca» (Filippo Rossi) che ci fa rimpiangere gli italiani antichi di Toto Cotugno e l'Italia umile e immigrata di Mino Reitano. Potrà anche sbagliare, il vulgo, a farsi piacere la regina giordana e i talent boys sfornati dalle scuderie costanzesche, ma nel complesso, per tutto quello che se ne può dire, Sanremo piace, è piaciuto, o perlomeno registra il pieno di consensi attraverso lo strumento dell'audience, che volenti o nolenti è il giudice monocratico del successo di un prodotto tv. Così registriamo l'ennesima verifica di questa ferrea legge dell'oligarchia (se piace a noi giornalisti, intellettuali, critici, non piace al pubblico) applicata al costume italiano. In questa chiave, ha ancora più senso la provocazione lanciata un anno fa aveva da Alessandro Baricco lanciando di destinare i fondi per la cultura solo alla tv e alla scuola, togliendoli al teatro e all'arte di nicchia. Non c'è bisogno di essere così estremisti, epperò il fuoco di critiche dirette contro il direttore di Rai Uno, Mauro Mazza, uno che tra l'altro ha una sensibilità culturale sconosciuta ad altri uomini della tv, e al team di autori del Festival, ha esaurito i colpi in canna. La critica schifiltosa e sopraccigliosa è il facile destino di tutti i grandi spettacoli che celebrano l'immagine mediatica di un Paese attingendo al lato più facile e agibile del carattere nazionale, ed è quasi scontato che in eventi tipo Sanremo si produca quel tanto di finzione che consente di sciogliere nel bel canto (e anche in quello meno bello) e nelle coreografie maestose, le asperità della cronaca, riannodandole alla storia italiana in formato Raccontami. Ma dobbiamo essere sinceri: è mille volte meglio il telebucatino di Sanremo, farcito di buone intenzioni e bei sentimenti, che narra in melodia e scenografie il «lato a», buono e quasi buonista dell'Italia popolare e popolaresca, del cinepanettone che si rivolge allo stesso pubblico e racconta lo stesso soggetto ma dal «lato b» della scurrilità, delle corna, dei rutti e delle parolacce.  

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