Non possono demolire tutto
Leggere «Repubblica» è sempre utile per comprendere come mai la sinistra in Italia sia alla canna del gas. Ad un eccellente lavoro giornalistico sul piano della cronaca infatti fa quasi sempre seguito uno sgangherato apparato di commenti che proiettano su Marte il giornale fondato da Eugenio Scalfari. In prima pagina ieri si potevano leggere frasi leggiadre del tipo «effetto statuina» e «propaganda dell’emergenza» che trasmettevano bene la serenità e serietà dell’analisi sulla questione Protezione civile. Quando leggiamo che all’Aquila dopo il terremoto «i campi sono diventati subito campi militari, dove era impedito ai cittadini discutere» è chiaro che si entra in una dimensione dove la fiction ha preso il sopravvento. Ve lo immaginate Guido Bertolaso che trasforma i centri di soccorso in recinti simili a un campo di rieducazione vietnamita? Perché non scrivere direttamente che c’era il filo spinato elettrificato, una torretta con i militari a fucile spianato e le baracche con la sveglia per tutti obbligatoria alle cinque del mattino? Non si può demolire tutto. Ho chiesto ai miei colleghi cronisti de Il Tempo come hanno trascorso i loro giorni tra le macerie dell’Aquila, proprio in quei campi. Maurizio Piccirilli mi ha raccontato che lui era ospite, entrava, usciva, faceva foto, giocava con i bambini e non ha mai visto «un collage di zone d’ombra». E sono sicuro che ci vede benissimo. Non mi fido, Repubblica è nota per la sua infallibilità, chiedo a Matteo Vincenzoni che cosa vedeva lui, cronista giovane e attento, in quei luoghi di orribile detenzione. Ecco farsi realtà l'incubo dittatoriale, profilarsi ai miei occhi la montagna di prove schiaccianti contro i bruti capeggiati da Bertolaso: «I volontari avevano raccolto giocattoli e biciclette per bambini e ragazzi. Venivano persone da Roma o da altre città per aiutare tutti, portare cibo e restavano nei campi per ascoltare il racconto in prima persona dei terremotati». Deluso, mi rivolgo a un cronista di lungo corso come Maurizio Gallo: «Le strutture erano accessibili a chiunque. Perfino ai ladri, tanto che gli sciacalli rubavano dentro le tende. C'erano psicologi, volontari, medici clown che intrattenevano bambini e adulti, li sottoponevano a terapia per superare lo shock. Tutti entravano e uscivano liberamente». Niente, i campi di detenzione di cui scrive Repubblica nessuno li ha visti. E allora perché un giornale importante mette in pagina un articolo così grottesco? Siamo di fronte a farneticazioni, ammantate dal sociologese. E' vero che c'erano delle misure di sicurezza, ma voi fate entrare in casa il primo che bussa alla porta? All'Aquila, nel campo di piazza d'Armi, c'erano «drammatici problemi di sicurezza e gestione del campo» nonostante i 260 volontari che lo gestivano. Su 1.370 ospiti, circa un terzo era rappresentato da rumeni, peruviani e filippini, tre comunità spesso in rissa fra loro. C'erano 165 anziani sopra i 65 anni e venti disabili allettati da seguire. Più tutta l'area del «disagio» del vecchio centro storico: alcolisti, tossicodipendenti (c'è stata perfino una overdose). Basta e avanza per capire come la Protezione civile sia stata costretta a porre dei paletti per tener fuori almeno gli spacciatori. Accecata dal pregiudizio politico e dalle scorie ideologiche, la sinistra intellettuale (si fa per dire) impagina un gioco al massacro che ottiene il solo risultato di non essere credibile agli occhi degli italiani. È il miglior modo di consegnare ancora una volta le chiavi del Paese a Berlusconi. Perché un conto sono le mazzette sugli appalti, i favori, le combriccole, i ladri e gli sciacalli. Un altro la Protezione civile, l'impegno di Bertolaso e dei volontari che a l'Aquila hanno perso il sonno e lasciato il cuore.