Nella Capitale la curva è cultura pop
Solo Massimo Gramellini, evidentemente immemore dello strettissimo legame tra Torino, gli Agnelli e dunque la Juventus, solo chi non conosce le vicende federcalcistiche o chi fa finta d'avere l'anello al naso, può arricciarlo di fronte alla tardiva scoperta che i legami tra calcio e politica, in Italia e a Roma in particolare, sono stretti. E non solo in Italia, se è vero, e qui vado rapidamente a memoria, che la guerra serbo-croata è nata dopo gli incidenti in un derby tra Zagabria e Belgrado, o che l'Espanõl a Barcellona è nata per dare rappresentanza alla minoranza filocastigliana in terra catalana. Se poi qualcuno ha voglia di guardare come ci si scontrava in passato, nelle arene gonfie di pubblico, legga o ripassi quel Risse da stadio nella Bisanzio di Giustiniano (Rizzoli) ch'è una raffinata narrazione di Sigmund Ginzberg. Se c'è conflitto nella società, questo può riverberare negli stadi. L'ha scritto Antonio Pennacchi più o meno in questi termini: gli stadi sono luoghi di aggregazione sociale che coagulano migliaia di persone attorno a una passione, è impensabile che siano impermeabilizzati rispetto a ciò che succede all'esterno, sono per loro natura luoghi pubblici e in un certo senso «politici». La nascita dei primi gruppi ultras italiani, per dire, si situa a cavallo tra gli anni Sessanta e i Settanta, e sovrappone in molti casi tifo calcistico e militanza o simpatia politica. Piace, non piace, è storia. Il fatto, poi, va ben al di là dei simboli presenti sugli stendardi degli ultras, che possono turbare il benpensante e possono pure infastidire chi fa politica sul serio e non sopporta questo trasferimento di simboli ideologici appresso alle curve pallonare. Il fatto è che il calcio è politico perché, nella sua versione originaria e pure in quella contemporanea, è un fenomeno che invade la dimensione politica e cittadina, a Roma più che altrove. A Roma il calcio è cultura pop, è un fatto di costume, prima che sportivo, è una passione che lega famiglie e slega amicizie e si respira sette giorni su sette, è un business pigliatutto che sforna inni, merchandising, forme d'arte, canzoni, barzellette, circoli, club, comitive, è un ciclone di empatia personale e collettiva da cui nessuno, nemmeno i più distanti, può completamente immunizzarsi. Il calcio, vissuto a Roma, è un fatto extracalcistico, è la metropoli stessa che respira coi polmoni delle fedi del pallone, dimenticando appositamente, per non svilire le emozioni, che non di arditi dannunziani si tratta ma di strapagati ragazzotti che scendono in campo al soldo di società spesso quotate in borsa. Questo al cittadino-tifoso non interessa, però. A Roma la Lazio, prima, e la Roma, poi, si sono sedimentate nell'immaginario non solo giovanile come incubatori di identità alternative, la Roma come squadra popolare e popolana, la Lazio coi tifosi ovunque minoritari tranne che nella Roma Nord borghese, che parte dai Parioli e arriva su alla Cassia. Se il calcio a Roma, per citare Marcel Mauss, è un «fatto sociale totale», se respira in cointeressenza con la vita cittadina, c'è poco da scandalizzarsi se un sindaco, un governatore della polis, si interessa alle sorti sportive di una squadra della sua città, nello specifico Alemanno con la Lazio, mentre c'è molto da scandalizzarsi di fronte alla colossale scemenza, alla cretineria di chi minaccia di non votare Polverini se Lotito non lascia il timone della presidenza. Chiudo con una postilla. Veltroni, dimenticando d'essere tifoso juventino, si presentò con la sciarpa giallorossa a festeggiare lo scudetto al Circo Massimo. Vorrei vedere cos'avrebbe fatto se la Roma si fosse ritrovata terz'ultima, guidata da un presidente impopolarissimo: in curva Sud l'avremmo trovato, altro che.