Giustizia e politica, sospetta coincidenza
Senza volere entrare nel merito dei sospetti o delle accuse clamorosamente cadute sul sottosegretario alla Protezione Civile Guido Bertolaso, c'è da chiedersi se certi magistrati sono veramente malvagi, come alcuni spesso li rappresentano e ogni buon cittadino deve naturalmente augurarsi che non siano, o sono semplicemente, banalmente, ma anche pericolosamente sfigati. Capita a talune indagini di esplodere con il rumore degli avvisi di garanzia, delle perquisizioni e degli arresti nei momenti più sfavorevoli alla loro credibilità perché coincidono con passaggi spinosi della politica. La vicenda giudiziaria di Bertolaso è scoppiata, benché gli accertamenti attivati con le intercettazioni durassero da parecchio, non solo in campagna elettorale e all'indomani della promessa fatta pubblicamente dal presidente del Consiglio di promuoverlo ministro, ma anche o soprattutto mentre la Camera si accinge ad esaminare la legge appena passata al Senato sulla Protezione Civile spa, fortemente voluta dal sottosegretario. Il capogruppo del Pd a Montecitorio, Dario Franceschini, si è affrettato ad alzare il livello dello scontro reclamando «a questo punto» il ritiro del provvedimento. Il giudice di Firenze che, accogliendo le richieste della Procura, ha consentito l'esplosione delle indagini si è così trovato antipaticamente arruolato o quanto meno adoperato dall'opposizione in una offensiva politica estranea alla sua funzione. Ciò è già accaduto tante altre volte che i magistrati, singolarmente e nei loro organi di rappresentanza e di autogoverno, dovrebbero sentire finalmente il bisogno di fare una seria riflessione e di trarne le conseguenze, se vogliono evitare un discredito che la maggioranza di loro sicuramente non merita. Vorrei rinfrescarne la memoria ricordando alcuni dei più clamorosi casi d'inquietante sincronismo politico-giudiziario. Alla fine del 1992, dopo mesi d'indagini e di voci, il primo avviso di garanzia a Craxi fu spedito e notificato mentre il governo presieduto dal suo compagno di partito Giuliano Amato si predisponeva ad un provvedimento per la cosiddetta uscita politica da Tangentopoli. Rimesso nei cassetti proprio per effetto di quell'iniziativa giudiziaria, esso fu ripreso dopo tre mesi e varato come decreto legge, che però l'allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro si rifiutò di firmare dopo che il capo della Procura di Milano, guarda caso, ne aveva clamorosamente contestato il contenuto. Eppure sul provvedimento c'era stata una fitta consultazione tra Palazzo Chigi e il Quirinale. La richiesta d'autorizzazione a procedere per mafia contro il senatore a vita ed ex presidente del Consiglio Giulio Andreotti partì dalla Procura di Palermo nel 1993 mentre nella Dc, già ammaccata dalle indagini sul finanziamento illegale della politica e sulla corruzione, si cominciava a discutere su cosa fare del partito: se portarlo in carrozzeria o dallo sfasciacarrozze. Morto Aldo Moro nel 1978, messo da parte per anzianità Fanfani, morto nel 1991 Carlo Donat-Cattin, dimessosi pochi mesi prima Arnaldo Forlani da segretario, Andreotti avrebbe potuto in quel momento svolgere un'azione utile alla sopravvivenza di un movimento politico ancora provvisto del maggior numero di voti e di parlamentari. Ma l'accusa giudiziaria di mafia, dalla quale sarebbe stato assolto dopo più di dieci anni, lo neutralizzò. Nell'autunno del 1994 il famoso «avviso a comparire» a Silvio Berlusconi, per un'accusa anch'essa caduta poi nel processo, gli arrivò mentre il suo primo governo, in carica da pochi mesi, stava perdendo per contrasti di natura politica ed economica un alleato decisivo, che era già allora Umberto Bossi, incoraggiato dalle opposizioni e dallo stesso presidente della Repubblica a rompere la maggioranza. Ne derivò un'accelerazione della crisi e di quello che, con la formazione del governo di Lamberto Dini, sarebbe stato chiamato «ribaltone». Mi fermo qui solo per ragioni di spazio, non perché sia esaurito l'elenco delle inquietanti coincidenze fra iniziative giudiziarie ed eventi politici.