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Il dipietrismo è finito

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Antonio Di Pietro

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Le metamorfosi stupiscono sempre, a patto che siano reali. Per quanto corrive e correnti in politica, in qualche modo ne costituiscono il sale, soprattutto in tempi di decadenza. L'apparizione, per dire, di un populista giacobino come Antonio Di Pietro è emblematica dell'epoca in cui viviamo e dello scadimento dei costumi politici. Egli ha riassunto il malessere che percorre il sistema istituzionale facendone un'arma micidiale di delegittimazione della democrazia e della rappresentanza popolare. Per di più si è proposto come «puro» interprete di un imprecisato sentimento di giustizia. Almeno fino a ieri quando il congresso dell'Italia dei valori ha segnato la fine improvvisa, come un infarto, del dipietrismo per volontà dello stesso demiurgo il quale, disattendendo le aspettative dei suoi stessi seguaci, ha dichiarato che l'opposizione gridata, l'estremismo esagitato, il malpancismo come ideologia si sono rivelati strumenti inservibili nella lotta politica. Questa, ha teorizzato, oggi necessita della costruzione di un'alternativa di governo a cui il suo movimento deve contribuire cercando magari un'intesa più stretta con il Partito democratico. Musica per le orecchie di Pierluigi Bersani a cui non è parso vero abbracciare Di Pietro come un fratello ritrovato. La metamorfosi è poi stata suggellata da un abbraccio ancora più significativo e, a breve termine, più produttivo: quello con il sindaco di Salerno, candidato alla presidenza della Regione Campania, Vincenzo De Luca che così ha ricevuto la benedizione dell'Idv nonostante i mugugni di Luigi De Magistris che non lo voterà comunque. De Luca, più furbo dell'eurodeputato, sa come conquistare platee assetate di giustizialismo, affollate di tricoteuses, e con il garbo che lo contraddistingue ha proclamato che se non la vince lui la partita regionale la vincerà la camorra dei Casalesi. Accenti che la dicono lunga sullo spirito «moderato» e sulla concezione della democrazia dell'ex-comunista salernitano per il quale, evidentemente, tutti quelli che non la pensano come lui sono oggettivamente collusi con il clan più feroce della Campania. Meno male che c'era De Luca a scaldare la folla dipietrista la quale ci metterà un po' per comprendere le ragioni della metamorfosi del capo. Il quale, naturalmente, temendo di non essere compreso, non ha potuto esplicitare le ragioni della sua conversione. Proviamo a farlo noi, con poche battute. Di Pietro ha abbandonato il dipietrismo perché si è reso conto che è cominciato il suo declino politico. Senza un progetto, suddito riottoso di un Pd che non lo sopporta più, diviso al proprio interno, prigioniero di logiche correntizie esasperate, dove potrebbe andare il movimento dell'ex-magistrato su cui gravano inquietanti interrogativi esplosi sulla stampa in questi giorni? E poi quelle foto dell'integerrimo Sant-Just molisano con il numero tre del Sisde Bruno Contrada. Arrestato pochi giorni dopo per concorso in associazione mafiosa e poi condannato, non gli rendono di certo la vita più facile, né gli faranno guadagnare nuovi consensi. E non è detto che Di Pietro non sia chiamato a rispondere anche in sede giudiziaria, oltre che in quella politica naturalmente, di tutto quel che è stato scritto. La solitudine lo spaventa. Dunque, al diavolo la piazza, il popolo viola, l'opposizione rissosa: per questo basta un Barbato qualunque o un De Magistris coadiuvato dal fine rivoluzionario Flores d'Arcais. L'Idv è un'altra cosa. Anzi, un'altra casa: quella tra le cui pareti Di Pietro può sentirsi al sicuro con la benevolenza di Bersani e compagni disposti a dimenticare antichi dissapori e riaccogliere l'uomo che promette di eclissarsi nel 2013. E se la metamorfosi non fosse sincera? Non si stupirebbe nessuno. Da quando ha fatto la sua comparsa nella vita pubblica, quasi un ventennio fa, Di Pietro non s'è mai posto il problema della coerenza. Sfogliare i giornali per credere. Dovrebbe farlo ora? Un congresso, come sa perfino lui, è fatto di parole. E le parole spesso se le porta il vento.  

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