Sono passati solo cinque anni da quel San Valentino del 2005 quando, un quasi sconosciuto ai più Sergio Marchionne, salito sulla plancia di comando di una Fiat data per spacciata, annunciava la sua dichiarazione d'amore per l'Italia
Quelgiorno si era conclusa una trattativa lunga e irta di ostacoli per il Lingotto appeso a un contratto che lo obbligava a cedere l'intero pacchetto azionario alla General Motors. Alla fine Marchionne ebbe la meglio nella disputa e vinse due volte. Annullò l'opzione di vendita a favore degli statunitensi e portò a casa un assegno da due miliardi di dollari, a quell'epoca circa 1,55 miliardi di euro. Quel giorno Marchionne disse ai 1500 lavoratori richiamati dalla cassa integrazione: «È stata una vittoria dell'Italia: la Fiat è da ora un'azienda tutta italiana». Un bella pagina di nazionalismo economico. Che ieri però Marchionne ha completamente voltato. E forse dimenticato. Già. Allo scadere degli incentivi, che hanno consentito al gruppo di Torino di vendere macchine anche nella fase più acuta della crisi, e reso immediatamente evidente la frenata degli acquisti. la Fiat non ha esitato un istante a mettere in cassa integrazione 30 mila dei suoi dipendenti. Un colpo a sorpresa che, sebbene motivato dalla giusta e riconosciuta autonomia aziendale, mette in stallo l'intero apparato produttivo di Fiat in Italia. Da ieri sono ferme non solo le fabbriche che già lavoravano pochissimo come Termini e Pomigliano d'Arco, ma anche quelle che fino a oggi avevano tenuto testa alla crisi, come quelle di Melfi, Cassino, quelle abruzzesi, e Mirafiori. Una decisione che ha sollevato la reazione robusta del ministro dello Sviluppo Economico, Claudio Scajola, che in un'intervista a Sky Tg 24 ha tuonato: «La decisione della Fiat non è opportuna e rende tutto più difficile». «Proprio in questi giorni che stiamo affrontando la delicata vicenda della Fiat a Termini e quindi il piano complessivo della Fiat in Italia» ha spiegato Scajola «e questa rapidità di decisione della Fiat di annunciare già da oggi (ieri ndr), e di avviare a fine mese, la cassa integrazione per tutti gli stabilimenti Fiat mi pare una decisione non opportuna. Con la Fiat i nostri contatti sono continui ma non sapevamo dell'annuncio di ieri. Mi auguro che si possa riannodare il filo ma questa decisione rende più difficile la vertenza». E l'invito a ricucire arriva anche dal ministro del Welfare, Maurizio Sacconi. L'ad Marchionne è lontano, a Detroit, dove si dedicherà per qualche giorno alla Chrysler, ma le prospettive negative del mercato dell'auto e l'annuncio della cassa integrazione danno contraccolpi a Piazza Affari: il titolo va giù del 4,8% e chiude a 9 euro. Non è una buona giornata per l'ad della salvezza dell'industria automobilistica italiana. Alla critica del ministro si aggiunge anche quella dei sindacati. Il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, parla di «un modo singolare di procedere, un ricatto», termine usato anche dal ministro dei Trasporti, Altiero Matteoli. Luigi Angeletti, numero uno della Uil, insiste sulla necessità di tutelare «la produzione industriale a Termini Imerese». Per l'Ugl «è doveroso l'impegno di tutti per l'occupazione». Mentre la Confsal spiega che «la decisione di fermare la produzione per due settimane non è proponibile in un corretto sistema di relazioni industriali». Ma a rialzare i toni arriva un telegramma inviato ai sindacati e a diverse autorità istituzionali, dalla Fiat, che spiega le ragioni della sospensione dell'attività produttiva nello stabilimento di Termini Imerese. «Manifestazioni e proteste che in varie forme ne hanno disturbato l'attività lavorativa. Il presidio dei cancelli con blocco delle merci in entrata e in uscita rende impossibile svolgere l'attività così l'azienda è costretta a sospendere dal lavoro tutto il personale dello stabilimento». Uno strappo che prova a ricucire il vicepresidente John Elkann: «A Torino c'è il nostro cuore, è qui dove c'è la nostra testa». Fiat resta in Italia. Per ora.