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Troppo presto per sparare su Obama

Barack Obama

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Dopo gli entusiasmi del 20 gennaio 2009 per l'insediamento alla Casa Bianca di Obama, 44° presidente degli Usa, sopraggiungono ora delusioni, scoramenti e critiche. Ma una cosa è condurre una campagna elettorale da grande comunicatore come ha fatto il giovane senatore nero per ridare entusiasmo a un paese frustrato dall'Amministrazione di George W. Bush, e un'altra è governare quotidianamente una nazione che è passata, con la crisi finanziaria ed economica, dall'opulenza all'impoverimento, e dal dominio del mondo al ripiegamento in difesa per l'attacco senza precedenti dell'11 settembre 2001. Un risultato positivo, a mio parere c'è stato in questi dodici mesi, nonostante le resistenze interne ed estere ai progetti di Obama: è il radicale cambiamento d'immagine degli Stati Uniti, sia tra gli americani che un anno e mezzo fa accordavano solo il 30 per cento del consenso a Bush, sia, soprattutto, tra i popoli del mondo che hanno ripreso a guardare all'America con fiducia mettendo da parte quello spirito antiamericano largamente diffusosi nell'ultimo decennio. Sul piatto positivo dell'Amministrazione sta il fatto di avere affrontato la crisi senza dogmatismi ideologici, ma con uno spirito pragmatico che, proprio per questo, ha scontentato sia i conservatori che proponevano ricette iperliberiste, sia i liberal per i quali sarebbe stato necessario un maggiore interventismo pubblico. La realistica linea mediana adottata da Obama ha avuto come effetto che la crisi non si aggravasse, che si incominciasse a invertire la tendenza negativa, anche se la disoccupazione è salita al 10 per cento, un livello tuttavia che è lontanissimo dalle catastrofi degli anni Trenta. È ancora positivo avere portato quasi a termine - e si vedrà nei prossimi giorni la conclusione - quella riforma sanitaria per dare l'assistenza a tutti i cittadini, che nessun altro Presidente dal 1946 ad oggi era riuscito a varare. Certo, il provvedimento non è quello che Obama auspicava, ma i compromessi sono stati necessari su un terreno che è stato sempre ostico per la maggioranza degli americani che non ama l'intrusione dello Stato nelle vicende personali come la salute. In politica estera, nel giro di qualche mese, l'America di Obama ha ridefinito il sistema globale, riallacciando la fiducia con gli organismi internazionali, in primo luogo con le Nazioni Unite, stabilendo migliori rapporti con la Russia e i paesi arabi moderati, e quindi ipotizzando una gestione del mondo incentrata sui 20 maggiori paesi dei cinque contenenti intorno all'asse speciale Stati Uniti-Cina. Resta sul piatto negativo, o in bilico, l'altra grande questione internazionale, vale a dire la lotta al terrorismo che è divenuta, per l'Occidente, una delle grandi priorità conseguente lo sviluppo del terrorismo islamista. Nonostante la mano tesa a tutti i popoli del mondo, compresi quegli Stati che fino a ieri erano parte del cosiddetto «Asse del male», resta tuttora aperta la ferita dell'Afghanistan, a cui si aggiungono altre aree come la Somalia e lo Yemen, sempre più infestate dalle organizzazioni fondamentaliste. A questo proposito, la strategia americana di intervento sembra oscillare tra la mano ferma e il tentativo di un approccio più morbido. Un anno, per il presidente di un paese che è alla guida del sistema internazionale ed ha dietro di sé trecento milioni di individui oggi impoveriti da una crisi che ha radici lontane, è troppo poco per un bilancio definitivo. Solo il futuro - con l'intero mandato presidenziale di quattro anni -, potrà dire se Obama avrà vinto la scommessa che si è dato di conseguire l'unità del suo paese e la pacificazione internazionale. Massimo Teodori

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