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"Quelle mie scelte difficili"

Bettino Craxi

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Nel decimo anniversario della sua morte vorrei pagare a Bettino Craxi un debito contratto nel nostro ultimo incontro, al termine di una lunga conversazione dopo cena nella sua casa di Hammamet. Ricordo che fummo ad un certo punto interrotti dall'irruzione di alcune guardie tunisine, armate di tutto punto, accorse dalla loro postazione, all'interno della stessa casa, per un allarme scattato in una villa vicina chissà per quale ragione, forse per un tentativo di furto, o per un guasto. Il timore delle guardie era che qualche malintenzionato volesse arrivare all'uomo affidato alla loro protezione. Che qualche volta, in verità, sembrava più una sorveglianza, tanto era pressante, direi anche invasiva. Ma Craxi non se ne lasciava infastidire più di tanto, ironizzando anche sul fatto che i suoi ospiti fossero abitualmente tenuti a lasciare alle guardie i documenti di riconoscimento per varcare l'ingresso della sua villa. Quella notte discutemmo, in particolare, delle ragioni per le quali la vicenda di Tangentopoli, pur essendo arcinoto da tempo un sistema tanto diffuso quanto balordo e illegale di finanziamento della politica, avesse potuto esplodere ed essere usata soprattutto contro di lui e i suoi alleati, risparmiando o toccando solo di striscio tutti gli altri. Dove e quando si era sviluppato quel senso di paura, o quella voglia di vendetta, che poi istigò o consentì alla magistratura e ai giornali di trasformarlo in un simbolo del malaffare politico? Quello che poi, ahimè solo dopo la sua morte, anche alcuni dei suoi avversari politici di un tempo, fra i quali Piero Fassino, hanno definito un «capro espiatorio». Bettino mi rovesciò la domanda, sfidandomi in qualche modo a dirgli dove e quando avrebbe compiuto qualche passo falso o innescato, senza rendersene conto, la miccia di quello che poi sarebbe scoppiato contro di lui. Stetti al gioco e, assumendo la parte dell'avvocato del diavolo, cominciai chiedendogli se avesse messo nel conto del famoso decreto legge che salvò la televisione commerciale del Biscione dall'oscuramento disposto dai pretori la saldatura, in un blocco assai pericoloso, fra la già forte e dichiarata opposizione politica dei comunisti, quella per niente nascosta della sinistra democristiana, insofferente della presidenza socialista del Consiglio, e quella dei concorrenti reali o potenziali di Silvio Berlusconi nell'appetibile mercato televisivo e pubblicitario. «Ma ti rendi conto - mi chiese a sua volta - che l'alternativa a quel decreto era la difesa dell'ormai antistorico monopolio pubblico della televisione? Che razza di paese avrei contribuito a costruire evitando di intervenire, io che sventolavo la bandiera del riformismo e dell'ammodernamento?». Passai alla vicenda di Sigonella, quella del duro scontro con la Casa Bianca di Ronald Reagan per il rifiuto di consegnare agli americani i sequestratori della nave Achille Lauro, dirottati in Italia dall'aviazione militare degli Stati Uniti durante il loro trasferimento in Tunisia su un aereo egiziano. «Ma Reagan - obiettò Craxi - fu il primo a rendersi poi conto che non avevo avuto torto a difendere la sovranità dell'Italia e a riconoscerne la compatibilità con un'alleanza politica e militare da me onorata, eccome, con la vicenda ben più probante dell'installazione degli euromissili». Fu proprio allora che irruppero le guardie tunisine per l'allarme scattato in una villa vicina, cessato il quale, quando tornammo a parlare da soli, egli mi disse: «Tu credi che io possa sentirmi qui sicuro solo grazie all'indiscutibile e prezioso aiuto degli amici tunisini?». Passai allora a ricordargli il referendum del 1987 sulla responsabilità civile dei magistrati, promosso dai radicali, da lui sostenuto quando era presidente del Consiglio e svoltosi, nonostante le resistenze della Dc, dopo il suo allontanamento da Palazzo Chigi. Non pensasti - gli chiesi - che la potente corporazione giudiziaria e gli annessi e connessi, contrarissimi a quel referendum, non te l'avrebbero mai perdonato? «Ma come potevamo noi socialisti sottrarci a quella battaglia - mi chiese a sua volta Craxi- dopo l'ignobile trattamento subìto nei tribunali dal povero Enzo Tortora? Peccato, piuttosto, che quel referendum, per quanto vinto, non abbia poi cambiato granché le cose». Ma la legge che permette alla corporazione giudiziaria di conservare praticamente il privilegio di non rispondere dei propri errori - gli obiettai - porta il nome di un ministro socialista della Giustizia, Giuliano Vassalli. «È vero, ma di un governo non presieduto da me», mi rispose. «E poi - aggiunse- debbo ricordare che Vassalli, persona degnissima, era fra noi socialisti il meno convinto di quel referendum, se non contrario». Parlammo anche della sua contestazione della cosiddetta linea della fermezza durante il tragico sequestro di Aldo Moro; dello scontro con il Pci sui tagli alla scala mobile dei salari; della sua rinuncia al tentativo delle elezioni anticipate nel 1991, l'anno prima dell'esplosione di Tangentopoli; della scommessa sull'elezione di Arnaldo Forlani a presidente della Repubblica nel 1992, nonostante le prevedibili resistenze fra i democristiani e gli stessi socialisti, e della sua orgogliosa decisione di ritirarsi in Tunisia, lasciandosi dare del «latitante», piuttosto che lasciarsi arrestare per i processi ai quali era stato sottoposto. «La mia libertà equivale alla mia vita», mi rispose a quest'ultimo proposito anticipandomi quella che sarebbe poi stata l'epigrafe sulla sua tomba. «In ogni caso - mi disse Bettino quella notte concludendo la nostra lunga chiacchierata - se un giorno tu decidessi di scriverne, ti prego di riferire che quelle di cui abbiamo parlato sono state scelte politiche e che nelle stesse circostanze le rifarei, tutte». Gli assicurai che lo avrei accontentato. Ecco, l'ho fatto, serenamente convinto, dopo averlo sostenuto quando era vivo, ch'egli meriti di essere difeso ancor più da morto, vista la rivoltante ferocia di chi continua a reclamare nei suoi riguardi la dannatio memoriae.

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