Mannino, sconfitta dell'Antimafia
Il processo a Calogero Mannino per come è stato preparato, per come è cominciato, per come si è svolto, per quanto è durato e per come è finito si è rivelato essere la più grande sconfitta dei professionisti dell’antimafia. Una sconfitta storica. Le disavventure di Mannino iniziarono più di 16 anni fa con un avviso di reato che si trasformò in arresto nel febbraio del 1995. Una detenzione lunga nove mesi, durante i quali Mannino si ammalò, perse trenta chili e arrivo addirittura a pisciare sangue. Gli vennero negati gli arresti domiciliari per quattro volte e, anche quando glieli concessero, lo rinchiusero in casa per un altro anno e due mesi. Complessivamente gli hanno fatto fare 23 mesi di custodia cautelare che hanno fatto rischiare la morte a Calogero Mannino. Più che condannarlo per mafia, ne volevano fare un "pentito", il primo grande pentito della politica, il Buscetta della politica. Se fosse crollato, se avesse ceduto alle sofferenze fisiche e morali, se avesse parlato e accusato Lima e Andreotti e il suo partito, sarebbe uscito di galera e non sarebbe nemmeno arrivato al processo. Se ci fossero riusciti, probabilmente la storia di grandi processi di mafia ai politici sarebbe stata diversa e i professionisti dell'antimafia non ne sarebbe usciti così clamorosamente sconfitti. Mai, forse nemmeno per Andreotti, si erano impegnati tanto. Il solo processo di primo grado è stato il più lungo processo per mafia celebrato a Palermo, è durato più di cinque anni e mezzo, 300 udienze, 400 testimoni, 25 "pentiti", oltre 50mila pagine di atti processuali. Tutto conclusosi nel 2001 con un'assoluzione piena dell'imputato "per non aver commesso il fatto". Dopo tre anni il primo processo d'appello. La Corte d'Appello di Palermo lo condanna a 5 anni e 4 mesi di reclusione anche se, un anno dopo, nel 2005, la Corte di Cassazione annulla la sentenza. Fino ad arrivare, prima al 22 ottobre 2008 quando i giudici della seconda sezione della Corte d'Appello di Palermo lo assolvono riprendendo la sentenza di primo grado, e a giovedì scorso quando anche la Corte di Cassazione ha assolto definitivamente l'ex ministro democristiano. Ebbene, per tutto questo tempo, per tutti questi anni, per tutti questi processi, l'accusa contro Mannino è stata sostenuta dallo stesso magistrato, il pm Vittorio Teresi. Un uomo che ha fatto in tempo a fare le indagini preliminari, il processo di primo grado, il primo processo d'appello dopo tre anni e si è trovato persino pronto, dopo altri tre anni, a sostenere l'accusa nel secondo processo d'appello e, infine, a ricorrere in Cassazione contro l'ultima assoluzione. Calogero Mannino ha avuto per quasi diciassette anni un unico inquisitore, che è diventato anche requirente in primo e secondo grado e che, come hanno detto gli avvocati in aula: «l'occhiale con cui il pm, lo stesso pm, sempre lo stesso pm, ha visto i fatti e l'imputato è rimasto sempre lo stesso. La passione delle argomentazioni si è trasformata in rancore in appello, la riproposizione stentorea e sistematica degli stessi argomenti per anni e nei processi di appello ha preso la strada di una valutazione rancorosa della sentenza di assoluzione. Un'invettiva contro gli stessi giudici che avevano assolto Mannino, arrivano addirittura a mettere in discussione la loro onestà intellettuale definendo la sentenza che aveva assolto Mannino una sentenza nostalgica della vecchia mafia». Ma non era solo il pm Vittorio Teresi, era tutta la procura di Palermo, e persino tutta l'Associazione magistrati di Palermo. Basta leggere le dichiarazioni del sostituto procuratore generale Siniscalchi dinanzi alle sezioni unite della Cassazione per capire lo spirito che aleggiava sulla sentenza che condannava Mannino emessa dai giudici del primo processo d'appello: «Non c'è nulla. Mi sono trovato dinanzi al nulla. La sentenza torna ossessivamente sugli stessi concetti, ma non c'è nulla che si lasci apprezzare in termini rigorosi e tecnici, nulla che indichi un patto elettorale con la mafia, favori in cambio di voti, nulla che possa valere a sostanziare l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Questa sentenza costituisce un esempio negativo da mostrare agli uditori giudiziari di come una sentenza non dovrebbe mai essere scritta». Una dichirazione che ha fatto subito insorgere la giunta esecutiva dell'Associazione magistrati di Palermo ancora prima che la Cassazione si pronunciasse, accusando il sostituto procuratore generale di «aver gettato un'ombra ingiusta e infondata sulla professionalità dei colleghi che hanno emesso la sentenza di condanna di Mannino». ma la giunta poi è andata oltre sollecitando addirittura l'intervento del Consiglio superiore della magistratura, che avrebbe dovuto processare e punire Siniscalchi se non, addirittura, i giudici stessi delle sezioni unite della Cassazione che annullarono la sentenza di condanna di Mannino con le stesse motivazioni del procuratore generale. Ma c'è un altra ragione per cui le conclusioni del processo a Mannino sono una sconfitta dei professionisti dell'antimafia e sono suscettibili di avere serie conseguenze sull'esistenza stessa del loro cavallo di battaglia preferito, il cosiddetto reato di concorso esterno in associazione mafiosa, lo strumento classico che usano per mettere sotto processo i politici. La Suprema Corte a sezioni unite già nella sentenza di annullamento della condanna del primo processo d'appello scriveva che «si può considerare il concorso esterno in associazione mafiosa laddove ci si trovi di fronte a un patto in cui da una parte viene promesso l'appoggio elettorale al politico e dall'altro viene offerto alla mafia un aiuto. Ma questo non può essere vago né limitato alla mera contiguità dell'uomo politico all'associazione mafiosa, ma per configurare reato deve avere un contenuto serio e concreto, determinando l'effettivo rafforzamento o consolidamento dell'associazione mafiosa». Ci sono tutti i presupposti, dettati direttamente dalla suprema magistratura perché il Parlamento si decida a rivedere radicalmente l'esistenza stessa del concorso esterno e almeno a regolamentarne rigorosamente l'applicazione. Infine, intervistato da Skytg24, Mannino ha rivelato che negli ultimi tempi Giovanni Falcone, che aveva di lui stima e gli mostrava confidenza, gli aveva manifestato di essere seriamente preoccupato della possibilità di una "convergenza" tra Cosa Nostra e certi servizi segreti stranieri, convergenza che poteva provocare in Italia «un autentico terremoto». Forse sarebbe opportuno che, mentre il Parlamento si occupa di abolire o almeno regolamentare il concorso esterno in associazione mafiosa, il governo incarichi i nostri servizi segreti di indagare in proposito.