Solo macerie il partito di Bersani
La vecchia scuola comunista è dura a morire. Almeno nel linguaggio. Un franco confronto era il modo per mascherare una lite tra dirigenti. Ma erano gli anni del centralismo democratico. Ieri Bersani ha pensato bene di descrivere il caos sulle candidature del Pd alle regionali come il segno che il suo è il solo partito federalista. Così sappiamo cosa vuol dire federalismo per i vertici dell’opposizione: anarchia. Dove ognuno fa quello che vuole. Nel Lazio, dopo la bufera Marrazzo, il centrosinistra non ha trovato un candidato presidente. Tanti i "no grazie", così, quando i radicali hanno presentato la Bonino, i democratici si sono tuffati a pesce. Non si era mai visto un partito, che sogna di diventare maggioranza, agganciarsi al candidato di una piccola forza senza discussione, senza trattativa. Via libera semplicemente perché era la ciambella di salvataggio. In Puglia è andata ancora peggio. Di candidati ce n’erano troppi. Nonostante lo scandalo che ha toccato alcuni esponenti politici legati all’attuale giunta, il presidente, pur in evidente difficoltà non ha voluto mollare. Il sindaco di Bari, Emiliano, si autocandida e si ritira. Poi la designazione di Boccia, che però sarà costretto a vedersela con Vendola nelle primarie, con il rischio che, come nelle elezioni precedenti, sia proprio Vendola ad avere il sopravvento. Questo è federalismo? No, questo è caos. Il caos di un partito in cui il dissenso diventa scissione. Se ne sono andati Rutelli, Bianchi, Lusetti, Carra. Il compito di Bersani era soprattutto quello di creare un partito. Ma il lavoro di questi mesi non sembra aver dato risultati. Ognuno procede per suo conto. Non solo, ma adesso non riesce nemmeno più a far appello al collante dell’antiberlusconismo: tutti uniti per battere il Cavaliere. Il Pd, a due anni dalla nascita, ha lasciato per strada uno dei fondatori, Rutelli, ha messo ai margini il primo segretario, Veltroni, e Prodi, che era stato l’unico a battere il centrodestra, è stato pensionato. Franceschini non perde occasioni per prendere le distanze dal segretario. Problemi della sinistra? Certo. Così la maggioranza può dormire sonni tranquilli e prepararsi a riprendere la guida di alcune regioni in mano all’avversario. Ma questo priva il Paese di una forza di opposizione. Bersani disponibile per discutere sulle riforme? Ma chi rappresenta? Dov’è il suo partito? La prima prova importante per il nuovo segretario del Pd è fallimentare. Altro che ritorno al vecchio Pci. E nemmeno alle correnti della Dc, che litigavano su tutto, ma, quando arrivavano le elezioni, sapevano ricompattarsi. Qui siamo al partito fai-da-te. E Bersani lo chiama federalismo. Il problema per il Paese è che in questa situazione l’opposizione rischia ancor di più di essere monopolizzata da Di Pietro. E se così sarà, addio confronto sulle riforme. E quella politica del dialogo tanto auspicata anche da Napolitano, rischia di essere solo un insieme di buoni propositi. Inconcludenti.