Mannino e la giustizia che non c'è
«Hanno portato via un pezzo della mia vita. Non ho da recriminare ma da far constatare, affinché ingiustizia non si ripeta, e soprattutto perché, stabilita la verità, si rifletta su quanto accaduto e si guardi alla storia della Sicilia in modo diverso. Ne parleremo a tempo debito».Con queste parole Calogero Mannino commenta la fine del suo calvario giudiziario, iniziato con l’avviso di garanzia a lui notificato il 24 febbraio 1994. L’ipotesi di reato a suo carico fu quella di concorso esterno in associazione mafiosa, che porta all’arresto il 13 febbraio dell’anno successivo. Per l’ex ministro democristiano seguono nove mesi di carcere e poi altri tredici agli arresti domiciliari. Il processo di primo grado dura sei anni, 300 udienze e coinvolge 400 testimoni, per portare all’assoluzione che viene ribaltata con una condanna in appello a cinque anni e quattro mesi. La Cassazione dispone però di rifare il processo: da allora arrivano altre due assoluzioni compresa quella di ieri. Teniamole a mente queste due date: 24 febbraio 1994 e 14 gennaio 2010. Mannino ha avuto giustizia (e riconosciuta la sua innocenza) dopo sedici anni, passando attraverso enormi sofferenze che avrebbero stroncato un toro (chi ha dei dubbi si vada a vedere le foto dell’imputato Mannino nell’aula del processo). Chi ha a cuore il senso di giustizia e democrazia di questa Repubblica deve riflettere. Debbono farlo politici, giornalisti, magistrati. Debbono farlo tutti quelli che hanno a cuore il futuro di questa nazione. Qui non si tratta di discutere sul modo di fare politica al Sud e in Sicilia in particolare. Quella è una terra difficile, dove le campagne elettorali non si svolgono come a Novara o Bolzano. Quella è una terra dove lo Stato, la Regione e i comuni hanno sperperato miliardi di lire e milioni di euro, cercando di garantire consenso ai partiti attraverso meccanismi di clientela di cui spesso la Democrazia Cristiana è stata garante e promotrice. Non tutto va salvato della politica in Sicilia: anche Mannino lo sa benissimo. Ma ciò che non può essere accettato è proporre l’equazione democristiano uguale delinquente e mafioso. E poi non può essere tollerato che un cittadino venga giudicato con tempi così spaventosamente lunghi, tempi capaci di negare ogni forma di dignità all’imputato fino a fare coriandoli dell’idea stessa di Stato di diritto. Le parole con cui ieri Mannino ha commentato la sentenza sono nobili e serie, proprie di un vecchio cavallo di razza della politica moderata e meridionale quale egli è da sempre. Noi però non possiamo limitarci ad apprezzare il tratto «gentile» con cui uomini come Mannino o Andreotti hanno vissuto la fine delle loro vicende di giustizia. Noi dobbiamo capire che qualcosa di molto grave non funziona nel nostro sistema giudiziario e porvi rimedio nel più breve tempo possibile. Questo ora deve fare una classe dirigente degna di tale nome.