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Di Pietro fa il sabotatore, Berlusconi: "Ora o mai più"

Antonio Di Pietro

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Si era capito subito che il messaggio di Capodanno del presidente della Repubblica non era piaciuto ad Antonio Di Pietro. Egli si era limitato a definirlo "di per sé condivisibile", lasciando quindi intuire il suo sospetto che dietro le parole del capo dello Stato ci potesse essere qualcosa di non chiaro e non accettabile per lui, che si considera il più irriducibile leader dell'opposizione. Sono bastate poche ore, e la sparata carnevalesca del suo socio-concorrente Luigi de Magistris sull'espatrio da offrire al presidente del Consiglio per togliersi di mezzo "senza conseguenze", perché Di Pietro si riprendesse in pieno la scena e annunciasse la decisione di "disseppellire l'ascia di guerra contro il solito manipolo golpista", guidato naturalmente da Silvio Berlusconi. Quel verbo "disseppellire", in verità, fa un po' ridere in bocca a Di Pietro, che non ha mai sotterrato la sua ascia di guerra contro Berlusconi dal giorno in cui, come abbiamo già ricordato ieri, egli si offrì da sostituto procuratore della Repubblica di Milano al suo superiore Francesco Saverio Borrelli, riuscendo persino a spiazzarlo, di "sfasciare" il già allora presidente del Consiglio. Che sarebbe invece uscito assolto dal processo allestitogli con le indagini dell'autunno 1994. Ma il principale, vero obiettivo di Di Pietro questa volta non è tanto Berlusconi, e neppure il suo ministro Renato Brunetta. Al quale lo stesso Di Pietro, consideratosi ormai erede anche della sinistra massimalista scomparsa dalle Camere con le ultime elezioni, ha rimproverato di avere proposto di cambiare il primo articolo della Costituzione per sopprimere la definizione dell'Italia come "una Repubblica democratica fondata sul lavoro". No. Il principale obbiettivo è proprio il capo dello Stato per via di quel messaggio di Capodanno "di per sé condivisibile", ma in realtà congegnato perfidamente per "mettere il vento in poppa alla banda dei pirati" sulla barca delle riforme istituzionali, comprensive anche dei rapporti tra politica e giustizia. Essi debbono invece rimanere per Di Pietro quelli che sono diventati dall'epoca delle sue indagini sul finanziamento irregolare dei partiti e sulla corruzione che ne potette conseguire: rapporti cioè di prevalenza della magistratura sulla politica, per cui varrebbero poco o niente le elezioni rispetto a chi intendesse stravolgerne l'esito con arbitrarie iniziative giudiziarie a carico dei vincitori, se sprovvisti del gradimento o della copertura di certe toghe. Questa purtroppo è la realtà del Paese. Basta quindi che il capo dello Stato includa il problema dei rapporti tra politica e giustizia nel mazzo delle riforme istituzionali, o non lo escluda, per procurarsi l'accusa di aiutare "i pirati". Dopo il presidente della Repubblica, peraltro già accusato da Di Pietro nello scorso autunno di codardia per non avere rifiutato la promulgazione della legge sul cosiddetto scudo fiscale, e prima ancora di Berlusconi, il secondo obbiettivo dell'ex magistrato è il segretario del Pd Pier Luigi Bersani. Del quale non piace a Di Pietro la disponibilità più volte annunciata, dopo la sua elezione, a percorrere la strada delle riforme istituzionali condivise con la maggioranza. Che era stata invece abbandonata o rifiutata dai suoi due predecessori: abbandonata, in particolare, da Walter Veltroni, dopo una brevissima stagione d'apertura al confronto spazzata purtroppo dalla paura di un Di Pietro improvvidamente assunto come alleato, e rifiutata da Dario Franceschini, nella illusione di poter di vincere il congresso del partito su posizioni estremistiche.

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