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Arriva il turno di D'Alema l'uomo per tutte le poltrone

Massimo D'Alema

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Stavolta dovrebbe farcela. Il condizionale è d'obbligo, visto che Massimo D'Alema, suo malgrado, è diventato in questi quindici anni l'eterno candidato della politica italiana. Un uomo per tutte le poltrone. Forse anche per questo lunedì sera, intervistato dal Tg3, Pier Luigi Bersani alla domanda se Baffino potesse o meno diventare il presidente del Copasir (il Comitato parlamentare che «controlla» i servizi segreti) ha risposto secco: «Beh, il curriculm ce l'ha. Non c'è dubbio». E che curriculum. D'Alema è stato in corsa per qualsiasi posto dello scacchiere politico-istituzionale. E qualche volta ha perfino centrato l'obiettivo. Nel 1994, ad esempio, riuscì a diventare segretario del Pds. La «gioiosa macchina da guerra» che Achille Occhetto aveva abbandonato dopo la sconfitta shock contro Silvio Berlusconi. In realtà un referendum tra i 19.000 dirigenti centrali e locali del partito aveva consegnato le «chiavi di casa» a Walter Veltroni. Ma il Consiglio Nazionale rimise le cose a posto e Massimo diventò il lìder Maximo. Tre anni di successi (sotto la sua guida il Pds diventa, nel 1996, il primo partito nazionale) ed ecco che D'Alema viene chiamato a guidare la Bicamerale. Il flop di quell'esperienza non lo condiziona anzi, nel 1998, grazie ad Oscar Luigi Scalfaro che gli affida l'incarico e gli evita il problema di doversi confrontare con il verdetto delle urne, diventa il primo presidente del Consiglio ex comunista della storia d'Italia. L'ebbrezza di Palazzo Chigi dura fino al 25 aprile del 2000. E Baffino fa in tempo a collezionare la sua prima poltrona sfumata. Anche se solo ufficiosamente. Nel maggio del 1999, infatti, Il Foglio di Giuliano Ferrara parla di una sua possibile salita al Colle. Ma lui smentisce: «Ho un altro lavoro». Da questo momento, però, il lìder Maximo diventa il «candidato ideale». Si parla di lui, ad esempio, come leader ideale del centrosinistra in vista delle Politiche del 2001. Non se ne fa niente. Al suo posto corre Francesco Rutelli che, sfiora l'impresa, ma non riesce a fermare Berlusconi. D'Alema, dopo aver schivato una disonorevole sconfitta, si rifugia in Europa. Il 2006 è, indubbiamente, il suo annus horribilis. Il centrosinistra torna al governo con Romano Prodi e Baffino non può rimanere in un angolo, deve giocare in prima linea. Il Professore ha in mente per lui una poltrona prestigiosa: presidente della Camera. «Il candidato unico alla presidenza della Camera è Massimo D'Alema, se Prodi scegliesse Bertinotti non saremo contenti» dice il 19 aprile il deputato della Quercia Peppino Caldarola. Qualcuno si ricorda come è andata a finire? Ma il Professore è politico avveduto. Non può permettersi una maggioranza in cui il principale partito che lo sostiene è scontento. Così alza la posta in gioco. Sfumata la Camera il lìder Maximo si trova, con la benedizione di Silvio Berlusconi, in corsa per il Quirinale. «Se si riesce a trovare un'intesa - spiega il 7 maggio il numero uno dell'Udeur Clemente Mastella -, certamente auspicabile, al primo turno ci può essere un candidato. Viceversa, laddove ciò non si verificasse, evidentemente il candidato più probabile mi appare D'Alema». Il 10 maggio 2006, alla quarta votazione, Giorgio Napolitano diventa presidente della Repubblica. Massimo se la cava con una poltrona da vicepremier e una da ministro della Difesa. Un po' come la pubblicità del Dash, due al prezzo di uno. E siamo ai giorni nostri. Il governo Prodi cade e Walter Veltroni, diventato segretario del Pd, sfida Berlusconi. La sconfitta è cocente e per l'ex sindaco di Roma inizia un calvario che lo porta, nel febbraio di quest'anno, alle dimissioni. Pier Luigi Bersani è già in corsa per la successione, ma qualcuno pensa bene di gettare nella mischia il «candidato ideale». Lui non si tira subito indietro, anzi. L'11 giugno, intervistato dalla «sua» Red Tv, spiega: «Siccome sono favorevole al ricambio della classe dirigente, il ritorno di una persona che ha già ricoperto certi ruoli va considerato come un'extrema ratio». Per fortuna non ce n'è bisogno. Così D'Alema, liberato dall'incombenza di dover guidare un partito allo sbando, può dedicarsi ad un obiettivo all'altezza della sua levatura: guidare la politica estera della Comunità europea. Mr Pesc non può che essere lui. Lo pensa il governo, lo pensa Silvio Berlusconi in persona, lo pensa il Pse che è pur sempre la «famiglia» europea del Pd. Non lo pensano Gordon Brown e un altro po' di leader socialisti che gli preferiscono Catherine Ashton. Un inglese che, per dirla con le parole di Bersani, il curriculum sembra proprio non avercelo. Poco male. Dopo le polemiche infinite sulla sua bocciatura (con rimbalzo di responsabilità tra Bruxelles e Roma) finalmente D'Alema ha davanti a sé l'occasione del riscatto.   A meno di clamorose sorprese, infatti, Baffino dovrebbe prendere il posto di Rutelli alla presidenza del Copasir. I malumori non mancano ma alcuni fedelissimi raccontano che già domenica a Cortona, in occasione della convention di «Area Democratica» (la «corrente» di Dario Franceschini), Veltroni assicurasse che la cosa andrà in porto. Il che non è certo garanzia di successo, ma visto che si tratta del «principale leader dello schieramente avverso a Baffino», è comunque un segnale. E poi D'Alema su quella poltrona conviene anche alla maggioranza. In un periodo in cui si parla di confronto e dialogo, chi potrebbe contestare un «incontro riservato» tra il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta, che ha la delega ai servizi segreti, e il presidente del comitato che li controlla? Un inciucio? Forse. Ma come dice Baffino, ci sono «certi inciuci che farebbero bene al Paese».  

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