"L'inganno di quelle parole"
«Il lavoro rende liberi», la tragica insegna all'ingresso di Auschwitz, Alberto Sed l'ha letta quando aveva 15 anni ed è entrato nel campo con la madre e tre sorelle e gli altri ebrei del ghetto di Roma. «Per me quell'insegna rappresentava un inganno. Significava che eravamo solo liberi di morire. Certo, oggi ha un valore simbolico, se però si racconta esattamente cosa era realmente il lager. Non mi stupisce che sia stata rubata. Forse qualcuno vuole rimuovere la memoria, che invece è fondamentale, soprattutto per le giovani generazioni». Lei è la testimonianza vivente di quella tragica pagina della storia. Che cosa era Auschwitz ? «Un inferno. Vedevo morire centinaia di persone ogni giorno, e non parlo solo di quelli che finivano nei forni. Uomini cadevano a terra morti di stenti oppure si buttavano contro i reticolati per essere fulminati dalla corrente elettrica. Altri venivano impiccati, uccisi a bastonate, torturati. Era così tutti i giorni. Due internati francesi, indicandomi le ciminiere dei forni, mi spiegarono che servivano per il riscaldamento e che a bruciare erano anche mia madre e mia sorella. Così seppi della loro morte. Mia sorella più piccola invece fu risparmiata dai lavori pesanti. Infatti, essendo bionda e con gli occhi azzurri, doveva essere a disposizione di Mengele per i suoi esperimenti. È stata lei a raccontarmi della fine dell'altra sorella; sbranata dai cani delle SS per il loro divertimento. La morte era dappertutto». Ma lei ha trovato la forza di resistere e oggi di raccontare… «Nel campo potevo e dovevo pensare soltanto alla mia sopravvivenza. Del resto eravamo tenuti ad una obbedienza cieca e assoluta. Dovevo adattarmi a mangiare qualsiasi cosa, a fare tutto quello che mi veniva ordinato. Quando lavoravo ai treni dovevo aiutare a far scendere i bambini. Le SS mi chiedevano di lanciarli sul carro che li portava ai forni. Pensavo che fosse per fare più in fretta. Invece era per potergli sparare in aria, come al tiro a segno. Da allora non ho potuto più prendere in braccio un bambino. Ogni giorno era sempre peggio, un incubo che sembrava non finire mai. È difficile capire cosa abbia significato vivere una tale esperienza. Quando mi hanno preso avevo appena 15 anni e sono stato ad Auschwitz per 13 mesi, poi mi hanno trasferito alle miniere di carbone. Solo dopo 50 anni ho trovato la forza di raccontare. Ma sono immagini che ho sempre davanti agli occhi. Attuali e reali come se tutto fosse accaduto poco fa. Non potrò mai dimenticare».