Se la retorica producesse benessere, per giunta senza inquinare, i tanti, e uniformi, commenti sulla conferenza di Copenaghen, potrebbero essere letti con meno severità.
Cosìcome potrebbe essere visto con meno fastidio il filmato introduttivo, nel quale si chiamano i bambini a chiedere la salvezza del mondo. Nel filmato, purtroppo, manca la difesa dei bambini senza futuro, quelli che muoiono subito, per mancanza, non per eccesso di sviluppo. I protagonisti della conferenza Onu non sono i bambini, ma gli Stati Uniti, capofila del mondo già ricco, e Paesi come la Cina e l'India, che vivono un'impetuosa e lunga crescita economica e produttiva. I primi hanno già cambiato diverse volte opinione. Firmarono gli accordi di Kyoto, destinati a contenere l'emissione di gas serra, poi sostennero che non avrebbero ridotto quel che i concorrenti non riducevano. Ora Obama cambia nuovamente rotta, e che a guidarlo sia la coscienza ecologica possono crederlo solo gli illusi. Quel che è cambiato, nel tempo, è la situazione oggettiva del mercato. Nel mondo della produzione di beni materiali l'occidente industrializzato conta sempre di meno, mentre la crisi ha seriamente posto il problema del collasso industriale e la crescita della disoccupazione. Gli americani, come anche gli europei, hanno il problema di far convivere gli aiuti pubblici all'economia con il crescere del debito pubblico. La riconversione «verde» è, appunto, una buona occasione. La partita vera, quindi, non si gioca sulle margherite di fine secolo, ma sui soldi da spendersi oggi. La Cina guarda con interesse a quella spesa, anche perché nelle sue mani si trova la gran parte del debito statunitense. Ma ci sono due cose, sulle quali non intende mollare: a. il processo di crescita non si tocca, perché il gigante asiatico e l'India hanno ancora un enorme potenziale di sviluppo; b. visto che i già ricchi vogliono parlare in termini globali, comincino a compensare la faccenda mettendo tecnologia di valore a disposizione di chi è in via di sviluppo. Una posizione logica, forte economicamente e politicamente, seguendo la quale, però, ci consegniamo nelle loro mani e consegnano loro l'Africa che non hanno ancora comprato. Messa così, la cosa somiglia meno ad una scampagnata di bimbi ruzzanti e di più ad uno scontro d'interessi imponenti. Mettiamo che le cose vadano nel migliore dei modi (ce lo auguriamo, naturalmente), che gli sforzi convergano verso un maggiore e più distribuito sviluppo, accompagnato da una più saggia conservazione delle risorse naturali e della stabilità ambientale, al netto delle sciocchezze catastrofiste, che prima prevedevano l'imminente glaciazione ed ora paventano l'incipiente squagliamento. Questo segnerà il trionfo degli ideali raccolti sotto uno dei loghi più globalizzati, quello del sole che ride? Neanche per sogno, anzi, quel sole farebbe bene a ridere meno e vergognarsi di più, visto che il progresso produttivo richiede comunque maggiore consumo d'energia, e se non vogliamo ricavarla bruciando fossili, e producendo gas serra, la produrremo incrementando drasticamente la fonte nucleare. Non a caso il settore in cui si prevedono i più massicci investimenti, con significative, ed intuibili, conseguenze in termini di controlli, quindi di politica estera non ispirata all'autodeterminazione dei reattori. Guai a prendersi in giro, quindi, guai a credere che da Copenaghen possa uscire un'economia che va a pedali. Il che significa, per venire alle cose di casa nostra, che al nuovo programma nucleare dovremo mettere il turbo, se oltre al clima appiccicoso della retorica non vogliamo beccarci anche le multe perché incapaci di non inquinare. www.davidegiacalone.it