Una piazza piena di parolacce è una piazza vuota
Di gente in viola certamente ce n'era tanta ieri a Roma in Piazza San Giovanni per dire no a Silvio Berlusconi e per reclamarne le dimissioni da presidente del Consiglio, a dispetto del consenso elettorale e della larga maggioranza parlamentare di cui dispone, opportunatamente ricordata di recente dal capo dello Stato a chi sogna una crisi o manovra per provocarla. Ma di idee, francamente, non se ne sono sentite molte, e tanto meno di nuove, né dal palco sul quale i promotori hanno fatto salire attori, guitti, presunti giuristi e altra gente variamente assortita, tenendovi lontano in apparenza i politici. Che hanno recitato la loro parte per strada, a titolo formalmente personale o a nome dei loro partiti, biascicando le solite dichiarazioni. Il cosiddetto popolo degli «internauti», al quale Antonio Di Pietro si è aggrappato per proporsi come il capo della vera opposizione, vista la inadeguatezza da lui attribuita anche al nuovo segretario del Partito Democratico, è sfilato per le strade romane rivendicando la propria spontaneità. Ma i cartelli che sono stati innalzati dai manifestanti, a cominciare da quello che rimproverava a Berlusconi di «avere rotto il cazzo», e le parole che sono state lanciate dal palco hanno scambiato la spontaneità con la volgarità, il turpiloquio, l'oscenità. Contro il presidente del Consiglio si è sentito, per esempio, gridare dal «narratore di storie» Ascanio Celestini l'impellente voglia di produrre «merda», preziosa secondo lui quanto «il petrolio», di cui all'occorrenza si potrebbe contingentare l'estrazione per farne salire il prezzo. Un presunto giurista gli ha attribuito l'aspirazione al ripristino dell'articolo 4 dello Statuto Albertino, che definiva «sacra e inviolabile» la figura del Re. Tante sconcezze e scempiaggini hanno fatto perdere la testa, fra gli altri, a Salvatore Borsellino. Che, salito sul palco poco prima dei soliti Dario Fo e Franca Rame, si è felicemente dichiarato «ubriaco» dei «miasmi» che si levavano dalla piazza contro il presidente del Consiglio. Del quale naturalmente egli ha auspicato la rapida caduta chiamando imprudentemente in causa la memoria e la lezione del fratello Paolo Borsellino, il famoso magistrato ucciso nell'estate del 1992, secondo lui non tanto dalla mafia quanto da «un pezzo dello Stato», magari già allora a servizio di «quello di Canale 5». Come ha appena detto al processo d'appello contro Marcello Dell'Utri il presunto pentito Gaspare Spatuzza tentando di coinvolgere Berlusconi nelle stragi mafiose che precedettero la formazione di Forza Italia e la sua vittoria elettorale nel 1994. La vicepresidente della Camera Rosy Bindi, presente alla manifestazione anche come neo-presidente del Partito Democratico, voluta a quel posto dal nuovo segretario Pier Luigi Bersani e da lui autorizzata a mescolarsi alla folla di ieri, si è compiaciuta di definire il suo «un popolo indignato, non frustrato». Di questa donna, ormai incontenibile da quando Berlusconi le ha imprudentemente dato il vantaggio di considerarsi vittima definendola in televisione «più bella che intelligente», verrebbe voglia di ripetere ciò che scrisse una volta Indro Montanelli di Flaminio Piccoli in un celebre «controcorrente» sul suo Giornale: «Diavolo di un uomo, riesce a perdere anche quello che non ha: la testa». È riuscita ieri, poverina, a soffocare nella culla la nuova segreteria del maggiore partito d'opposizione, condannandola all'inseguimento suicida dell'antiberlusconismo becero e giustizialista di Di Pietro. Il congresso del Pd sembrava chiuso e vinto con le primarie del 25 ottobre scorso da Bersani. È stata un'illusione. Sembra averlo vinto in realtà, sia pure sconfitto con quasi venti punti percentuali di distacco, Dario Franceschini, spostato dal nuovo segretario alla presidenza del gruppo della Camera, anche lui naturalmente mescolatosi ieri ad un «popolo» che tuttavia costituisce per Berlusconi, nonostante le sue obbiettive difficoltà, la migliore polizza di assicurazione. È infatti sin troppo evidente che non potrà essere questo tipo di opposizione a sconfiggere l'attuale presidente del Consiglio.