Repubblica non crede più ai giudici

... messa davanti all'uscita dalla partita per far saltare in aria i carabinieri di servizio e Spatuzza e il suo compare appostati sulla collinetta di Monte Mario che premevano disperatamente sul pulsante del detonatore e l'innesco non funzionò. A Torino ieri a premere disperatamente con le domande su Spatuzza per farlo esplodere secondo le aspettative generali era il procuratore generale, ripetutamente redarguito dal presidente della Corte d'Appello che non voleva far sentir parlare di stragi e di deduzioni ma di fatti riguardanti strettamente il concorso in associazione mafiosa, il reato per cui il senatore Marcello Dell'Utri veniva processato (e i fatti storici, ammoniva il presidente si verificano nel tempo e nello spazio e non nella mente di Spatuzza). E se l'esplosione è mancata, non è solo perché l'esplosivo di Spatuzza era fasullo e bagnato, ma anche perché la mano che premeva sul pulsante, le domande del pg, si è rivelata insicura e tremante. Fallita l'esplosione, come quella volta del fallito attentato allo Stadio Olimpico il problema per Spatuzza fu di come portar via l'auto con il tritolo inesploso, così ora il problema per i professionisti dall'antimafia, magistrati, cronisti d'assalto e politici dei valori, è come battere in ritirata senza rimetterci completamente la faccia. Se c'era qualcuno per cui l'operazione poteva riuscire più agevole che per altri, questi erano i segugi della «Repubblica» che questa volta, a differenza del solito, erano stati incredibilmente prudenti e, piuttosto che soffiare sul fuoco, avevano consigliato a tutti, compresi i pm delle procure d'assalto, di non insistere troppo su questa storia delle stragi e delle bombe, argomenti poco confacenti e per niente credibili per un uomo dalla vita allegra come Berlusconi, e di buttarla piuttosto sui denari, sulla vecchia storia dei piccioli che la mafia avrebbe investito nelle televisioni del Cavaliere, magari approfittando delle vaghe allusioni che lo stesso Spatuzza aveva fatto a certe presunte vanterie dei fratelli Graviano circa loro investimenti in Canale 5: quella chiacchiera seduti ai tavolini del caffè Doney a via Veneto intorno al «tutto è andato a posto... ci siamo messi il Paese nelle mani», questo poteva anche significare: che versati i piccioli al Cavaliere e concluso l'affare e divenuti soci e comproprietari delle televisioni, i fratelli Graviano pensavano, come lo stesso Berlusconi e insieme a lui, di poter conquistare l'Italia. Invece, forse perché la delusione e lo sconcerto per il flop di Spatuzza sono stati troppo clamorosi anche per quelli che erano più scettici, «Repubblica» e i suoi segugi hanno reagito malissimo. Pur riconoscendo, a denti stretti, che quello di ieri nell'aula di Giustizia di Torino è stato un «happening mediatico, teatro un po' noioso, spettacolo mediocre», e che «inconprensibilmente in aula l'accusa non ha avuto voglia di approfondire» (povero pg, prende calci da tutte le parti), i segugi di «Repubblica» promuovono l'imbianchino di Brancaccio, quello che lo stesso Giuseppe Graviano chiama «il pittore delle pareti», nientemeno che a «Boss» di Cosa Nostra e sposano alla fine anche loro, contraddicendo una mezza dozzina di precedenti articoli, la tesi che «Berlusconi e Dell'Utri sono i responsabili delle stragi del 1992-1993». Con un importante distinguo, tuttavia, che non farà affatto piacere a certi pm come Antonio Ingroia e Roberto Scarpinato, che da più di un anno stanno lavorando al teorema della «trattativa» tra lo Stato la mafia, per cui sarebbero stati i carabinieri fedigrafi del Ros a provocare la morte di Paolo Borsellino: «La morte di Falcone e l'assassinio di Borsellino - scrivono i segugi di «Repubblica» - non sono due iniziative distinte, separate da un doppio movente...Spatuzza disegna un'altra scena. La distruzione dei due magistrati è l'obiettivo di un piano che fin dall'inizio prevedeva anche la morte di Borsellino. Capaci, via D'Amelio nel 1992, le bombe in continente, nel 1993, sono tappe di una lucida e mirata progressione terroristica... L'omogenità del progetto mafioso liquida l'oscura controversia intorno alla "trattativa" avviata dagli ufficiali del Ros con Vito Ciancimino. Scoglie l'ipotesi che Borsellino sia morto perché, consapevole della trattativa dello Stato con i Corleonesi, vi si era opposto». Dalla padella nella brace. Nel tentativo di riparare in qualche modo al disastro dell'udienza di ieri a Torino e di spostare con cautela dal luogo della strage l'auto con l'esplosivo inesploso, come toccò allora a Spatuzza e compagni, i segugi di «Repubblica» recuperano la tesi di Berlusconi mandante delle stragi, da cui avevano preso nei giorni scorsi prudentemente le distanze, ma nel farlo affossano il castello di accuse pazientemente eretto dai pm della procura di Palermo contro il generale Mario Mori e gli altri ufficiali del Ros (e implicitamente contro quelli che sarebbero stati i loro politici di riferimento). E per gli inquirenti di Palermo e dintorni va anche peggio. Proprio loro, i segugi di «Repubblica» che in tutti questi anni sono stati i più tenaci ammiratori ed estimatori e propagandisti dei professionisti dell'antimafia delle procure di Palermo e dintorni, li tradiscono e li scaricano con disperato pessimismo: «La magistratura - scrivono - non appare oggi padrona del gioco. Con una guida delle indagini frammentate in quattro procure (Firenze, Caltanissetta, Palermo, Milano) più la procura nazionale antimafia, la magistratura è testimone di una trama che non controlla, al più interpreta in attesa di vedere quali saranno le cose nuove che accadranno». Devono essere veramente disperati e faranno persino tenerezza, e viene voglia di confortarli: abbiate fede, cari colleghi di «Repubblica», vedrete che l'11 dicembre prossimo venturo, quando saranno sentiti dai giudici della Corte d'Appello del processo a Dell'Utri i fratelli Graviano, le cose andranno meglio. Ne riparliamo allora. Lino Jannuzzi