La doppia morale di Gianfranco

Gianfranco Fini non ha buona memoria. O forse fa solo finta di non ricordare. Perché al presidente della Camera è accaduto un caso analogo a quello del fuorionda pescarese. Solo a parti rovesciate, perché nella parte del «processato» c’era lui. E in quella degli accusatori i suoi «colonnelli». Tre per l'esattezza, Ignazio La Russa, Altero Matteoli e Maurizio Gasparri. I quali, la mattina del 14 luglio del 2005, al bar «la Caffettiera» a piazza di Pietra, a un passo da Montecitorio, tranquillamente seduti a bere un aperitivo, argomentavano tra di loro delle colpe e degli errori dell'allora leader di An.   Accuse simili a quelle mosse oggi dal presidente della Camera a Berlusconi: mancanza di dialogo all'interno del partito, decisioni prese in solitudine senza consultare nessuno, la tendenza ad essere più simile a un «monarca» che a un vero leader. «Voci dal sen fuggite», che dovevano restare riservate (ma che comunque riflettevano quello che gli esponenti di An lamentavano in pubblico) e che invece furono raccolte da due giornalisti de Il Tempo, seduti a un tavolino accanto ai tre parlamentari, e poi pubblicate. Il giorno dopo a via della Scrofa, quartier generale di Alleanza Nazionale, scoppiò un putiferio. Fini pretese, il giorno stesso, di avere sul tavolo le dimissioni e le scuse dei tre parlamentari. Le ottenne entrambe e subito dopo ridisegnò completamente l'organigramma del partito. Oggi, dopo le frasi imbarazzanti con il Procuratore capo di Pescara Nicola Trifuoggi, Berlusconi gli ha chiesto la stessa cosa. Ma probabilmente il premier si sarebbe accontentato anche di una telefonata. Se non proprio di scuse almeno di chiarimento. Fini non ha fatto né l'uno né l'altro. Martedì ha chiamato solo il magistrato con cui aveva parlato alla giornata conclusiva del Premio Borsellino in Abruzzo e la sera è intervenuto a «Ballarò» per spiegare che il Presidente del Consiglio non c'entra nulla con i boss mafiosi. E ieri è rimasto tutto il giorno chiuso nel suo ufficio al primo piano di Montecitorio senza parlare quasi con nessuno. Punto. Nessun passo ufficiale, nessuna scusa. Eppure quel 15 luglio di quattro anni fa, quando sul suo tavolo arrivò l'articolo de Il Tempo, Fini andò su tutte le furie. Esattamente come è accaduto, oggi, a Berlusconi. Il leader di An si sentì tradito dagli uomini che erano più vicini a lui. Quelli che avevano condiviso la sua storia politica. Ancora una volta esattamente come è accaduto, a parti rovesciate, con Berlusconi, che con Gianfranco ha condiviso lo stesso cammino dalle elezioni del '94. Con discussioni, liti, ma comunque sempre insieme da 15 anni. Seduti al bar «La Caffettiera» i tre «colonnelli» non erano stati teneri. «La vera questione è chiedersi chi è Fini oggi — aveva commentato Altero Matteoli che solo due settimane prima era stato nominato segretario organizzativo del partito — Dobbiamo rispondere a questa domanda, dobbiamo andare da lui prima di agosto, altrimenti parte per le ferie e scompare. Dobbiamo andare da lui e dirgli "Gianfranco svegliati"- Che ne so, se serve prendiamolo a schiaffi, ma scuotiamolo. O diciamo che andiamo avanti senza di lui, ma non possiamo permettercelo, oppure troviamo una soluzione». Non era stato più tenero Ignazio La Russa. Anzi. «Sul partito unico non possiamo far fare le trattative a Gianfranco. Non è capace — aveva detto l'attuale ministro della Difesa — Quelli gli telefonano, gli dicono che vogliono togliere quello o quell'altro e lui dice sempre di sì. Non possiamo permetterci di affrontare una campagna elettorale con Fini in queste condizioni». Parole dure che avevano ferito il leader di An. Che aveva reagito nell'unico modo possibile: chiedendo le dimissioni dagli incarichi nel partito dei tre parlamentari. Richiesta che era stata accettata. Con tanto di lettera di scuse. Poi, con il tempo, la situazione era tornata alla normalità, la vicenda derubricata a uno «spiacevole episodio» e i tre colonnelli erano stati reintegrati nell'organigramma del partito. Oggi Berlusconi chiede a Fini di comportarsi nello stesso modo. Per coerenza.