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E Gianni "corteggia" Giorgio

Gianni Letta e Giorgio Napolitano

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NAPOLI - Arriva in macchina, si siede nella prima fila. È venuto fin qui Gianni Letta per omaggiare Maurizio Valenzi, certamente. Lo conobbe quando fu senatore comunista mentre lui, Letta, cronista di un quotidiano visceralmente anticomunista, Il Tempo. Rimasero in contatto, soprattutto nei terribili giorni del terremoto. Si aiutarono, si sostennero. Anche se da sponde opposte. Il braccio destro di Silvio Berlusconi ascolta. Ascolta nella Sala dei Baroni del Maschio Angioino, qui dove terminò la congiura dei baroni appunto: re Ferdinando I invitò tutti i congiurati per una festa allo scopo di una riconciliazione ma una volta giunti gli invitati li fece arrestare tutti. È anche la sala dove si riunisce il consiglio comunale di Napoli, la sala degli epici scontri e delle battaglie infinite, la sala immortalata dal film «Le mani sulla città», con le grida disperate del consigliere d'opposizione interpretato da Carlo Fermariello. Ascolta Letta. Ascolta tutto quel fiume interrotto di «napoletanità che non è napoletanismo», come dice Antonio Ghirelli. Ascolta anche Mariano Rigillo e Cristina Donadio che rileggono le parole di Valenzi. Poi tocca a lui, arriva al pulpito. E il sottosegretario alla presidenza del Consiglio allarga le braccia: «Parlo con trepidazione di fronte a tanti interventi napoletani». Si scusa: «Di fronte a questo coro la mia può sembrare una voce stonata». Guarda la prima fila e si rivolge direttamente al Capo dello Stato: «Mi verrà in soccorso il presidente. Perché ha spiegato come Valenzi fu esempio di italianità». Si ferma un attimo e poi attacca a leggere la prefazione al libro «Maurizio Valenzi», appunto, che è stato presentato proprio ieri. Quindi Letta legge: «Ha scritto il presidente: "Un magnifico esempio di italianità, di attaccamento a ideali di pace, di giustizia e di progresso sociale, nel segno della democrazia e della Costituzione, e di politica vissuta senza odii e senza fanatismi (come dovrebbe essere vissuta da tutti in un paese civile)"». Si ferma, rialza gli occhi, guarda il suo interlocutore e sospira: «Senza odi e senza fanatismi. Ebbenne, non potevo sapere che cosa avrebbe scritto il presidente quando la fondazione Valenzi mi ha chiesto di scrivere io una prefazione. Ed ecco le mie parole: "Il mio giornale seguì fino in fondo la sua esperienza di sindaco in un confronto che non fu mai aspro e prevenuto. E il nostro dialogo, sempre leale e costruttivo, si alimentava delle critiche come dei riconoscimenti, così come dovrebbe essere la regola di un giornalismo onesto. Ma anche della politica. Una regola che, comunque, dovrebbero sempre rispettare tutti quelli che sono investiti da pubbliche responsabilità"». Rialza gli occhi e sorride soddisfatto come a dire: vedete, lo stesso identico concetto. Napolitano ascolta divertito. Quando tocca a lui prendere la parola, il presidente della Repubblica si lascia andare a una delle sue battute in perfetto stile british: «Non si preoccupi del suo dialetto napoletano. D'altro canto, anche Benedetto Croce non era napoletano. Era abruzzese, proprio come lei». Letta, che nel frattempo aveva ripreso posto in prima fila se la ride. All'uscita, il Gr1 lo intervista e lui dirà «totalmente condivisibili» le parole del Capo dello Stato sulla moralità della politica. E condivisibili sono anche quelle sul dialogo? Certamente sì. Lo vogliono gli italiani e lo richiede il bene e il futuro del Paese». Anche sulla giustizia? «Mi auguro di sì, perché la vita è fatta di tante cose, anche la giustizia». Non sempre tra Palazzo Chigi e Quirinale si vedono fulmini.  

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