(...) con la propria coscienza; ma quando è necessario rendere testimonianza, farlo.
Pertutti i cittadini, per tutti gli uomini liberi, vale il principio: io non condivido in nulla il tuo credo, ma sono disposto a qualunque rischio affinché tu continui ad esser libero di professarlo. Ero a Parigi alcuni mesi fa, quando scattò la legge che vietava di portare negli edifici pubblici il hijab, cioè il "velo" che protegge simbolicamente il pudore delle musulmane coprendo capelli e collo e che, lasciando scoperto il volto, non impedisce l'identificazione di chi lo porta. Ricordo ancora con commozione un piccolo, agguerrito gruppo di studentesse trotzkiste di solito fedeli a scollature e a minigonne: quel giorno, si presentarono compatte nell'istituto dove lavoravo in compostissimi abiti scuri e abbigliate con un foulard che copriva loro i capelli. Non condividevano affatto la fede delle loro colleghe musulmane: ma stavano difendendo, in quel momento, la libertà e la dignità di tutti. So bene che, nei confronti del crocifisso, esiste un'antica repulsione da parte di ebrei e di musulmani: motivata anzitutto dal divieto presso di loro di rappresentare la figura umana, quindi dal loro atteggiamento dinanzi a Gesù, ormai per moltissimi ebrei grande Maestro della loro tradizione da recuperare ad essa e per i musulmani santo profeta, ma non effettivamente morto sull'odioso patibolo della croce. Non pretendo certo che essi esibiscano un crocifisso per solidarietà con i cristiani: ma chiedo loro di comprendere che la difesa della libertà di esibirlo in pubblico riguarda la loro stessa libertà. La proibizione di esibire un qualunque simbolo religioso rappresenta sempre un pericoloso precedente. L'Alta Corte europea, domani, potrebbe pretendere di legiferare anche su stella di David e su «mano di Fathma», su menorah e mezzaluna. Ai laici, chiedo di meditare sul modello offerto da un oscuro professore toscano di scuola media, anarchico ed ateo: il quale, durante uno dei tanti dibattiti televisivi sull'argomento, dichiarava di temere un domani nel quale ai giovani l'immagine di quell'uomo agonizzante su un patibolo di legno, tanto importante per la nostra arte, la nostra cultura e il nostro senso profondo di umanità e di solidarietà, fosse divenuta ormai estranea e incomprensibile. Il crocifisso è il simbolo di una fede: ma non comporta di per sé alcuna imposizione, alcun obbligo di adesione a Chiese e dogmi storici. Reimposto in Italia nel '23 e sancito come obbligatorio nei pubblici uffici col concordato del '29, ai tempi della «religione di stato», la revisione concordataria dell'84 ne ha abolito l'obbligatorietà: ha lasciato spazio tuttavia alla sua presenza là dove essa sia sentita come un'esigenza condivisa dai cittadini, e alla sua assenza là dove prevalga un parere opposto. Ma nessuno può credere che il crocifisso sia davvero lesivo per la libertà oppure offensivo per la coscienza di chicchessia: solo in malafede si potrebbe sostenerlo. Da secoli siamo accompagnati dall'immagine di quel giovane morente appeso a quel legno: assiste chi nasce e chi muore. E' l'immagine dell'amore inerme, disinteressato e totale. Nessuno può sentirsene offeso. «Il crocifisso è il segno del dolore umano. Il crocifisso fa parte della storia del mondo», scriveva Natalia Ginzburg su «L'Unità» il 22 marzo del 1988 in un articolo splendido, che dovrebb'essere letto in tutte le scuole e inviato ai signori della Corte dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo. Quei signori che finora non hanno mostrato la minima preoccupazione per il fatto che, nelle scuole dell'Unione, non esiste nemmeno una traccia d'insegnamento di storia comune e condivisa della nostra patria europea; mentre adesso emettono a freddo, con burocratica astrattezza, un verdetto che rischia di resuscitare antiche divisioni e che configura una ben strana concezione dell'identità, fondata sulla negazione dei valori. Domattina, recandomi alla mia sede universitaria, porterò con me un piccolo crocifisso, una copia di quello di San Damiano che parlò a Francesco d'Assisi: e lo attaccherò al muro dietro la mia scrivania. Non ne avevo mai sentito la necessità: la fede si porta nel cuore. Ma i signori della Corte meritano una risposta. Chi vuole, può denunziarmi.