Bersani fa il partito dei soliti noti

  Rassicurante. Come il cerchio di stoffa semitrasparente che circonda la platea dell’Assemblea nazionale del Pd riunita nel padiglione 14 della nuova Fiera di Roma. Come le lacrime di Rosy Bindi che ringrazia per una scontata elezione a presidente del partito Come le sedie disposte attorno al podio circolare da cui parla il neosegretario. Quasi un abbraccio virtuale che sembra voler dire tranquilli, siamo ancora qui. Tutti compatti come un sol uomo. Basta con gli effetti speciali. Si torna alla concretezza dei vecchi partiti. Scompare il gobbo elettronico che permetteva a Walter Veltroni di pronunciare i suoi discorsi guardando in faccia la platea e ricompare la carta. Pier Luigi Bersani sale sul palco con il suo bel plico di 21 fogli e legge. Concedendosi solo rare improvvisazioni e senza mai cercare l'applauso dei presenti. Il suo è un discorso programmatico a tratti noioso. Da candidato premier più che da segretario di un partito che deve risorgere dopo le batoste elettorali. Saluta Giorgio Napolitano e Romano Prodi, ringrazia chi lo ha preceduto (Dario Franceschini e Walter Veltroni) e anche il terzo sfidante alla primarie Ignazio Marino. Non una parola per Francesco Rutelli (gli riserverà una battuta concludendo l'assemblea ricordando che, con la sua fuoriuscita, non c'è alcun fronte che è rimasto scoperto). Forse iscritti e simpatizzanti lo hanno scelto per questo. Scottati dall'apparenza veltroniana, hanno preferito l'usato sicuro. L'emiliano pragmatico che ama parlare attraverso immagini che ricordano più la saggezza contadina che i riflettori di Cinecittà. Anche la colonna sonora della giornata è rassicurante. Nessun stacchetto musicale, si parte con l'inno d'Italia, si chiude con la Canzone Popolare di Ivano Fossati (tema che Romano Prodi scelse per il «suo» Ulivo). In verità il «deejay» tenta un ardito mix con Un senso di Vasco Rossi (canzone che ha accompagnato la campagna elettorale del neosegretario), ma l'esperimento dura solo un paio di secondi. Meglio non disorientare i presenti. Eccolo qui il nuovo Partito Democratico targato Bersani. Quello che come recita lo slogan stampato a caratteri cubitali ai lati del palco, lavorerà «per l'alternativa». Un'alternativa che poggia sulle solide basi del già visto, del già sentito. Basta scorrere i volti di chi siede in prima fila per capire che è così. Ci sono tutti. Da Luciano Violante a Luigi Berlinguer, da Alfredo Reichlin a Franco Marini. E poi ancora Piero Fassino, Giuseppe Fioroni, Massimo D'Alema, Anna Finocchiaro, Dario Franceschini, Rosy Bindi, Nicola Latorre, Paolo Gentiloni, Cesare Damiano, Livia Turco, Pierluigi Castagnetti. Il futuro è ancora loro perché, come spiega Bersani, «c'è bisogno di tutti e tutti devono collaborare a promuovere una nuova classe dirigente. Per questo intendo collocare nei luoghi esecutivi esponenti di una nuova generazione già sperimentata e creare attorno a loro la presenza attiva di personalità politiche che possano proteggere il cambiamento mettendo a frutto i vasti sistemi di relazione che possiamo mobilitare». Insomma i giovani ci saranno, ma saranno guardati a vista dagli «adulti». Si torna al passato. Quando per arrivare ai vertici del partito bisognava fare la gavetta. E non è un caso che, tra le proposte lanciate da Bersani, ci sia quella di «fondare nei prossimi mesi 500 nuovi circoli nei luoghi di studio e di lavoro». Cari democratici e democratiche, amici e compagni, si torna nelle fabbriche. Se poi qualcuno dovesse sentirsi poco rassicurato dal nuovo corso basta ricorrere al manuale Cencelli «lottizzando» in maniera scientifica poltrone e poltroncine. Così, se Rosy Bindi (bersaniana) diventa presidente, Marina Sereni (franceschiniana) e Ivan Scalfarotto (mariniano) diventano vicepresidenti. E se non fossero cariche monocratiche forse anche Enrico Letta (vicesegretario) e Antonio Misiani (tesoriere) avrebbero al loro fianco un paio di vice. Insomma nella «nuova casa» ci sarà una sedia per tutti a costo di aggiungere un posto a tavola. Anche per questo nella direzione votata all'unanimità trovano posto sia il «rutelliano» Luigi Lusi (l'ex tesoriere della Margherita che in molti davano in partenza) che l'ex governatore sardo Renato Soru. L'uomo che con la sua sconfitta segnò la fine del sogno veltroniano e che Bersani inserisce tra le 20 personalità che lui stesso deve indicare (ma solo per non sbilanciare troppo l'organismo a suo favore). Nemmeno Damiano resta fuori. Anche se, appena Bindi elenca i membri e non lo nomina, si alza in piedi e corre verso il tavolo della presidenza per chiedere spiegazioni. Non sa che lui è un eletto di diritto. Nel nuovo partito di Bersani non può certo mancare un ex segretario generale della Fiom, ex membro della segreteria nazionale dei Ds, ex ministro del Lavoro del governo Prodi.