Il manifesto di Gianfranco per la "Generazione F"
I totalitarismi del Novecento come gemelli ferocemente nemici; la Shoah come orrore che macchia per sempre l’identità europea; la generazione del Sessantotto e il suo smisurato desiderio di liberazione, che ha prodotto anche effetti devastanti; la caduta del Muro di Berlino e il tramonto delle ideologie, che spalanca le porte a un mondo nuovo. Gianfranco Fini in «Il futuro della libertà - Consigli non richiesti ai nati nel 1989» scrive alla Generazione Futuro, la prima a diventare adulta senza portare sulle spalle i pesanti fardelli del passato. E parla della buona (ma anche della cattiva) politica. Anticipiamo alcuni brani-cardine del volume. Care ragazze e cari ragazzi dell’89, meritate una lunga lettera perché in questo 2009 avete vissuto o state per vivere un compleanno speciale. Direi specialissimo, visto che compite vent’anni. Prima del 1989 la libertà era garantita solamente al di qua della Cortina di Ferro, solo nella parte occidentale dell’Europa. Ma era una libertà costantemente minacciata. Era certo una libertà consolidata, ma non da molto tempo. L’Europa occidentale era libera «soltanto» da quarantaquattro anni, da quando il mondo riuscì a disfarsi dell’incubo del nazismo, dopo una guerra terribile e atroce che produsse devastazioni immani e che vide commettere il più grande crimine contro l’umanità che mai sia stato compiuto: lo sterminio degli ebrei, la Shoah, un orrore ancor oggi indicibile e che ha scosso la stessa percezione di sé dell’uomo europeo, macchiandone per sempre l’identità storica. Di quella pagina orrenda, cari ragazze e ragazzi dell’89, dovrete serbare la memoria che vi è stata trasmessa dai padri e dai nonni e tramandarla ai vostri figli, affinché mai più accada che la logica perversa del potere, di qualsiasi potere, si abbatta sugli inermi, sugli innocenti, su popoli e genti, contro i quali decretare le discriminazioni più odiose – per motivi di razza, di religione, di genere e di condizione sociale –, in una progressione criminosa capace di raggiungere anche il genocidio (...). In quegli anni gli europei occidentali assistettero, senza poter intervenire, a brutali violazioni dei diritti degli uomini e dei popoli. Le nuove contrapposizioni Il problema è che viviamo una fase in cui, accanto alle tradizionali contrapposizioni tra destra e sinistra, stanno emergendo, nella percezione comune, nuove linee di faglia culturali e ideali: spirito pubblico vs particolarismo, laicità vs dogmatismo, universalismo vs provincialismo, coesione vs divisione, ricomposizione vs frammentazione, rinnovamento vs conservazione. La contrapposizione più forte, quella che le unifica tutte, è però tra fiducia e scetticismo o, se preferite, tra voglia di futuro e voglia di rassicurazione. È su queste linee che si giocheranno le partite decisive del domani.(...) Comunque, un concetto che deve esservi chiaro è che la società del «rischio» è cosa diversa dalla società della «paura». Tra i due termini esiste una decisiva differenza. E ritengo che comprenderla possa esservi d’aiuto nel costruire la vostra libertà. Un’altra stagione costituente Ma di riforme e di rinnovamento non ne parlano forse tutti? Sì, e anche da molti anni. Però il percorso reale delle riforme si è rivelato tortuoso e lento. Ancor oggi il Paese si sente in mezzo al guado di una trasformazione a metà, a lungo promessa e mai completamente attuata. Quella che servirebbe è una grande stagione costituente. Per realizzarla, sarebbe necessario in primo luogo un rinnovamento della cultura e del lessico stesso della politica. Siamo dominati da troppe parole roboanti, iperboliche, immaginifiche che non rimandano al XXI secolo della libertà, della modernizzazione, dei nuovi orizzonti globali e sovranazionali, ma al XX secolo delle ideologie, delle inimicizie radicali, delle idee blindate entro i fortilizi dei partiti- chiesa. Le ideologie si sono dissolte, ma di esse qualcosa è rimasto, sotto forma di un pulviscolo tossico che continua a produrre ostilità, in forme infinitamente più blande del passato, ma comunque capaci di produrre divisioni artificiose. È una nebbia sottile che altera il dibattito tra le forze politiche e non permette di distinguere con la necessaria nitidezza le questioni su cui è giusto e legittimo dividersi rispetto a quelle su cui è necessario convergere con una volontà comune. E la più importante non c’è dubbio che sia la questione del rinnovamento istituzionale. Perché il cambiamento delle regole riguarda tutti, non solo una parte. Perché la Costituzione segna il perimetro della casa comune degli italiani. Perché è necessario riscoprire il patriottismo costituzionale come valore che cementa la coesione sociale non meno che quella politica. Che cos’è una nazione? Ma che cos’è una nazione, potremmo dire riecheggiando Ernest Renan? La nazione è la comunità storica che si afferma come comunità politica. Non basta la storia a fare la nazione, né bastano la lingua, i costumi, il comune retaggio morale e culturale. Né il territorio, che è il luogo fisico. Né la patria, che è il luogo del sentimento. Né il popolo, che è l’identità comune tra le generazioni storiche. Né tantomeno basta la popolazione. La nazione è l’insieme di tutte queste cose che si esprime in una volontà politica. Non c’è nazione senza la volontà di esserlo. La nazione è un «plebiscito che si rinnova tutti i giorni» diceva Renan. È la percezione di un comune destino, un percorso che non è scritto negli astri ma nella volontà di condividerlo. Come tale, la nazione è un progetto in evoluzione continua; è sempre e non è mai. È una comunità politica in cammino e unita da un vincolo solidale. La nazione può anche conoscere momenti di eclisse. Accade quando il vincolo solidale si indebolisce e gli obiettivi comuni si fanno incerti. Oppure quando prevale la discordia e i conflitti si esasperano. L’Italia, di tali eclissi, ne ha conosciute parecchie. La storia ci consegna un sentimento nazionale incerto, con momenti di forte unità (pensiamo alla grande prova sostenuta dagli italiani tutti durante la Prima guerra mondiale, oppure alla grande, comune speranza rinata negli anni dell’Assemblea Costituente, della ricostruzione e poi del miracolo economico) che si sono alternati con momenti altrettanto forti di inimicizia (...). Saremo tanto più nazione quanto più riusciremo a integrare le comunità di immigrati legali nel nostro tessuto culturale e civile.