I giudici europei vogliono toglierci il Crocifisso
C'era anche l'italiano Gustavo Zagrebelsky, ex componente del Csm, tra i sette giudici di Strasburgo che vorrebbero far staccare il crocifisso dalle nostre aule scolastiche. Con una sentenza emessa all'unanimità, la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha esplicitamente ammesso di «non comprendere come l'esposizione nelle classi statali di un simbolo che può ragionevolmente essere associato al cattolicesimo possa servire il pluralismo educativo essenziale nel preservare una società democratica». Un concetto giuridicamente lunare fiorito tra i codicilli della Convenzione, un colpo di maglio inflitto alle comuni radici del sentire nazionale, che nella terra della Croce trova linfa per l'accoglienza di un simbolo universale. Il caso era stato originato dall'ostinazione di una signora italo-finlandese, che aveva ingaggiato una battaglia ideologica con l'istituto di Abano Terme, nel Padovano, dove studiano i suoi figli. Per far diventare il crocifisso niente più che un'ombra sulla parete di quell'aula si era proceduto a suon di giudizi: prima del Tar del Veneto, poi della Consulta e infine del Consiglio di Stato. Quest'ultimo aveva decretato che quell'oggetto non andasse rimosso dai muri scolastici «perché ha una funzione simbolica altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni». Non si tratta di «una suppellettile», ma «un simbolo idoneo a esprimere l'elevato fondamento dei valori civili», che sono poi, specificava il supremo organo amministrativo, «quegli stessi che delineano la laicità nell'attuale ordinamento dello Stato». Ma alla signora italo-finlandese non è bastato, e in sede europea ha ottenuta una prima rivalsa giuridica, fondata anche sulle paludi giurisprudenziali nelle quali si perde chiarezza sulle norme nazionali che regolano la materia relativa agli arredi scolastici, risalente a regi decreti del 1924 e 1928, non abrogate né dal Concordato del '29, né dalla Costituzione, e neppure dagli accordi dell'84 sulla modifica dei Patti Lateranensi. Ma attenzione: la sentenza di Strasburgo diventerà definitiva solo fra tre mesi, in caso di mancato accoglimento da parte della Grande Camera (composta da 17 giudici Ue) del contro-ricorso immediatamente presentato dal nostro governo. A quel punto, alla madre di Abano spetterebbe un risarcimento di cinquemila euro, e a tutti gli altri non resterebbe che arrendersi al destino della Croce oltraggiata. Sotto la quale, però, nelle scorse ore maggioranza e opposizione (con l'isolata eccezione della sinistra radicale) hanno ritrovato finalmente quel «comune sentire» nazionale. Cattolici e laici si sono pronunciati contro la sentenza: il ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini è «interdetta» per una decisione che «attacca un simbolo della nostra tradizione, cancellando il quale si cancella una parte di noi stessi»: ma praticamente tutto il governo ha manifestato lo stesso spiazzamento. Il presidente della Camera Fini ha sottolineato che «la laicità delle istituzioni è cosa ben diversa dalla negazione del cristianesimo nella società italiana», mentre quello del Senato Schifani, confessando «grande amarezza, ha rilevato che «sarebbe un errore drammatico fare dell'Europa uno spazio vuoto di tradizioni e di cultura». Dal fronte Pd, dove si sono levate voci contro la «memoria di difesa suicida» presentata dall'Italia davanti alla Corte di Strasburgo, Bersani ha ricordato che «su questioni delicate come questa, il buonsenso finisce per essere vittima del diritto. Un'antica tradizione come il crocifisso non può essere offensiva per nessuno». Da Oltretevere, Santa Sede e Cei giudicano la sentenza «miope e sbagliata», nonché «ideologica». «Non è per questa via» ha dichiarato il portavoce vaticano Padre Federico Lombardi, «che si viene attratti ad amare e condividere di più l'idea europea, che come cattolici italiani abbiamo fortemente sostenuto fin dalle sue origini».