Rosy è un problema per Bersani
Che il livello qualitativo di certo dibattito politico abbia raggiunto e superato i confini dell'oscenità, dopo il caso Marrazzo, lo hanno capito anche nel Partito democratico. Un partito che aspira, in futuro, ad andare al governo, non può farsi dettare la linea né dai pruriti moralistici di un gruppo editoriale né dai segmenti più radicali del suo elettorato. È un caso, certamente, che la vicenda dell'ex governatore del Lazio sia stata la prima grana che s'è trovato il neosegretario Pierluigi Bersani. Ma questa vicenda, più di altre, dovrebbe mostrargli in quale stato di prostrazione morale e politica oggi si trova il centrosinistra. Chi l'ha votato alle primarie ha scelto la linea della continuità con la storia nobile della sinistra italiana rispetto al profilo più affascinante ma sicuramente avventuristico immaginato da Veltroni e fotocopiato – male – da Franceschini. Bersani è tornato a parlare nelle fabbriche: in quest'epoca di politica virtualizzata, un buon segno. In un tale quadro, la disponibilità del nuovo segretario Pd al dialogo su questioni più contingenti come la rimodulazione dell'Irap o su temi di lungo periodo come le riforme istituzionali, comunicata a Gianfranco Fini ma indirizzata anche a Berlusconi, è un annuncio che svela un'intenzione, una linea, un'ipotesi da non prendere sottogamba. L'intesa, si presume bipartisan, per sostenere Massimo D'Alema nella corsa alla poltrona di ministro degli esteri europeo è un banco di prova importante per misurare se e quanto la politica italiana, perlomeno la linea dei due principali partiti, può abbandonare la rincorsa agli attacchi fondati su dossier, indiscrezioni, retroscena sordidi e massacri della vita privata, e rifondarsi su una base di solido rispetto istituzionale. Per Berlusconi sarà più semplice, ove ne intraveda davvero la possibilità, lanciare segnali di pace agli avversari. Per il segretario democrat è un'operazione più complessa. Nel 1991, quando il Pci diventò Pds, Bersani era segretario regionale in Emilia Romagna: della lunga storia comunista, nella versione pragmatica emiliana, ha appreso la lezione del realismo politico, che considera l'accordo istituzionale con l'avversario alla stregua non di un inciucio ma di una eventualità non disprezzabile della politica. Il medesimo pragmatismo non gli deve aver fatto digerire troppo bene l'addio di Francesco Rutelli in direzione dell'Udc allargata che sogna Casini. È una crepa dolorosa che si apre nel suo progetto di alleanze aperte più al centro che alla sinistra radicale, una ferita che Bersani vorrebbe sanare al più presto. Per questa ragione, la proposta lanciata a Rosy Bindi di assumere la presidenza del partito mal si coniuga con il progetto pragmatico e dialogante (con l'Udc sulle alleanze e con il governo sui grandi temi strategici) di Bersani. Certamente, la Bindi è donna di qualità e spessore, è però un'antiberlusconiana intransigente – per quanto educata - e neppure troppo favorevole a futuri accordi con i centristi. Potrebbe diventare, in breve tempo, l'alter ego di Bersani in seno alla sua stessa classe dirigente. E sarebbe l'ennesima pratica rognosa da gestire.