Nel Pd minacciano scissioni ma nessuno se ne va
È l'ultima moda del Partito Democratico: minacciare scissioni. Ogni occasione è buona. A credere a ciò che si legge sembrerebbe quasi che il Pd sia ormai destinato a una prematura scomparsa. Tanto che i tre candidati segretari, ormai da giorni, passano gran parte del loro tempo a rassicurare elettori e simpatizzanti: chiunque vinca le primarie del 25 ottobre il partito rimarrà unito. Nessuna defezione. Il dato, però, resta. Il «padre» di tutti gli scissionisti è sicuramente Francesco Rutelli. L'ex leader della Margherita non nasconde i dubbi sul percorso intrapreso. E ha detto chiaramente che la prospettiva di un partito socialdemocratico legata ad una possibile vittoria di Pier Luigi Bersani non è la sua. Se ne andrà dopo le primarie? A Sant'Andrea delle Fratte sono convinti di no. Anche perché, fanno notare, la sua è ormai poco più che una «posizione personale». Eppure Enzo Carra, sul proprio blog, assicura che «Rutelli ha in mente un altro partito, del quale ha in mente anche il nome; sta lavorando a un'alternativa rispetto al partito dove si trova oggi. E mi sembra fuori luogo parlare di scissioni a pochi giorni dalle primarie. Ma è chiaro che in un partito di Bersani, fortemente ancorato alla sinistra, laicista e vicino alla socialdemocrazia europea, io mi troverei di fatto fuori». In ogni caso la prospettiva di un Rutelli fuori dal Pd non preoccupa più di tanto i vertici del partito anche perché con lui se ne andrebbe la pattuglia teodem, che tanti problemi ha creato in questi anni, e, al massimo, un po' di ex margheriti (Paolo Gentiloni, ad esempio, si è già sfilato candidandosi nella lista Democratici per Franceschini nel collegio Roma Trieste). E comunque la domanda retorica che circola con insistenza tra i Democratici è una sola: ma siamo sicuri che Rutelli, Binetti & Co., messi in un grande centro, avrebbero la stessa visibilità che hanno nel Pd? Chi non se ne andrà sicuramente è invece Giuseppe Fioroni che alcuni giorni fa, sulle pagine della Stampa, si sfogava: «Se vincerà Bersani, come faranno quelli come me a restare nel partito di D'Alema? Io non so se ci saranno le condizioni...» Qui la vicenda è soprattutto numerica. Fioroni è l'uomo che detiene la maggioranza dei voti ex Ppi schierati con Franceschini. Difficile che Bersani, qualora vincesse, possa fare a meno di lui e difficile che lui possa portare la sua dote in premio a qualcun altro. Ecco spiegato perché quando ieri D'Alema lo ha punzecchiato in Transatlantico, ironizzando sulla sua dipartita, l'ex ministro ha risposto sorridendo: «Ero preoccupato perché tu hai detto che se vince Franceschini gli iscritti se ne vanno. Se mi assicuri che non se ne vanno, resto anch'io». Insomma, come dice un deputato della mozione Franceschini dietro promessa di anonimato, «si tratta solo di una guerra di posizionamento in vista del voto. Si minaccia la scissione per alzare il prezzo di un possibile accordo post-primarie. E comunque nessuno di questi ha un'alternativa reale». Così non se ne andrà l'ulivista Arturo Parisi che pure dichiara che voterà scheda bianca perché non c'è una direzione chiara; né ciò che resta dei cosiddetti «veltroniani» che non vedono l'ora di disturbare il «manovratore» D'Alema. Dopotutto, basterebbe un po' di memoria storica. Gavino Angius, già capogruppo dei Ds al Senato e figura di spicco tra gli eredi del Pci, se ne andò con Fabio Mussi perché contrario alla nascita del Pd. Di quest'ultimo non si hanno più notizie, mentre Angius è recentemente tornato sui propri passi. Se avessero solo minacciato la scissione, forse, ne avrebbero guadagnato entrambi.