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Mafia e appalti, un dossier che scotta

La strage di via d'Amelio

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Il «papello» e la trattativa: che c'è di vero? Il «papello» è una bufala, lo dice persino Luciano Violante. E l'unica trattativa sicura è quella in corso da più di un anno tra la Procura di Palermo e Massimo Ciancimino, il figlio di Vito. Una trattativa condotta dalla Procura nella speranza di poter ottenere quel «papello», prova determinante per stabilire che il generale Mori e il capitano De Donno trattavano con Vito Ciancimino e che su di loro ricadrebbe la colpa dell'uccisione di Paolo Borsellino, contrario alla trattativa. Massimo Ciancimino, che è (ingiustamente?) sotto processo per riciclaggio, in questa estenuante trattativa, si è rivelato più abile dei pm di Palermo. Infatti mentre loro dopo un anno di discussioni non hanno in mano che la fotocopia della bufala e rischiano di uscire dalla vicenda sputtanati, lui è in libertà, è diventato un divo della carta stampata e della tv e trascorre il week-end a Parigi. Ma il papello, la trattativa, il generale Mori e il capitano De Donno, gli ex ministri Mancino e Rognoni, Paolo Borsellino che sapeva e che si opponeva, non c'entrano nulla. Paolo Borsellino è rimasto vittima della sua ostinata convinzione che il suo amico Giovanni Falcone fosse stato ucciso per l'inchiesta sulla mafia e gli appalti, ed è convinto che sia stata affossata dalla Procura di Palermo. Proprio per la sua disperata determinazione, dopo la strage di Capaci, nonostante fosse stato ufficialmente escluso dalle indagini, riaprì quell'inchiesta, chiamando segretamente a collaborare i carabinieri che l'avevano gestita per incarico di Falcone. È il 25 giugno del 1992: questa è la data che conta. Non lo sono né il 1° luglio né il 15 luglio ovvero quando il «pentito» Gaspare Mutolo viene interrogato la prima e l'ultima volta da Borsellino. Al primo interrogatorio Mutolo gli preannuncia le «rivelazioni», ma si rifiuta di verbalizzare, e Borsellino non insiste più di tanto; all'ultimo interrogatorio, due settimane dopo, è Mutolo che chiede di verbalizzare ed è Borsellino che chiude il verbale e rinvia al lunedì successivo. Troppo tardi però. La domenica sarà ucciso. Per conto di quelli cui lui stava pensando e che non erano quelli accusati da Mutolo. Per Borsellino quindi non conta più di tanto la presunta «trattativa» di Mori e di De Donno con Vito Ciancimino. Ammesso che De Donno, che lo nega, ne avesse veramente parlato con la signora Liliana Ferraro (che aveva preso il posto di Falcone alla direzione degli Affari penali del ministero della Giustizia). E ammesso che la signora Ferraro ne abbia informato Borsellino il 23 giugno (lei stessa dava tanta importanza alla cosa che ne avrebbe parlato con il giudice solo quando lo ha incontrato per caso nella sala vip dell'aereoporto di Fiumicino). Borsellino ne è tanto preoccupato e ne è tanto contrariato che due giorni dopo, il 25 giugno, chiama a Palermo proprio Mori e De Donno e si riunisce con loro segretamente alla caserma Carini e gli chiede di organizzare un gruppo speciale di carabinieri per riaprire sotto la sua direzione l'affaire mafia-appalti. Borsellino è tanto contrariato di quello che starebbero facendo Mori e De Donno, che chiama solo loro, si fida solo di loro, si fida più di loro che dei suoi colleghi della Procura, si riunisce solo con loro e solo nella caserma dei carabinieri, e con loro solo parla del suo pensiero fisso, l'inchiesta mafia-appalti, ed è ancora più che convinto che Falcone è stato ucciso per questo, e si propone di indagare con loro per scoprire gli assassini. Perché? Perché Paolo Borsellino pensa più al dossier mafia-appalti che alle «rivelazioni» di Mutolo su Contrada e alla visita al Viminale e alle notizie che gli avrebbe passato la signora Ferraro sulla presunta trattativa? Perché la data che conta tra la strage di Capaci e la strage di via D'Amelio è quella del 25 giugno 1992 e non quelle più o meno controverse degli incontri di Mori e di De Donno con Vito Ciancimino? Perché tutto questo casino sul papello e sulla trattativa sembra sempre di più fatto per far dimenticare la data del 25 giugno 1992 e per depistare le nuove indagini sulle stragi. Il 25 giugno del 1992 sono passati sedici mesi dal 16 febbraio del 1991 quando il capitano Giuseppe De Donno consegna, all'allora sostituto procuratore Giovanni Falcone, le conclusioni della sua indagini sulla mafia e gli appalti. De Donno, che Falcone chiamava affettuosamente Peppino e che era uno dei pochi investigatori che si permetteva di dare al giudice del «tu», aveva fatto un ottimo lavoro e, valendosi delle confidenze di un geometra, Giuseppe Li Pera, che lavorava in Sicilia per una grossa azienda del Nord, la Rizzani De Eccher, aveva ricostruito la mappa del malaffare tangentizio siciliano. Falcone era in partenza per Roma, dove assunse l'incarico di direttore degli Affari penali al ministero della Giustizia, e il dossier di De Donno rimase nelle mani dei sostituti procuratori Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone. Doveva scoppiare la Santabarbara, nel dossier erano elencati 44 nomi di imprenditori e uomini politici di tutti i partiti, ma nessuno di loro fu disturbato. Anzi, come racconterà lo stesso Li Pera quando diventerà ufficialmente «pentito» e comincerà a parlare direttamente con i magistrati della Procura, già il 22 febbraio, solo sei giorni dopo, i coinvolti nell'inchiesta, gli imprenditori, i politici e i mafiosi, vengono avvertiti e messi in guardia da un certo Angelo Siino, che allora non era ancora diventato famoso come «il ministro dei Lavori pubblici di Cosa Nostra». «Stai in guardia», dice Siino a Li Pera e ai dirigenti della sua azienda, e passa loro l'elenco degli appalti e dei nomi citati nel dossier. Chi ha dato a Siino i nomi e le cifre? Non lo si saprà mai. Ma intanto il dossier di Falcone e De Donno è stato scremato e sterilizzato, sono usciti di scena gli imprenditori e i politici, sono rimasti in trappola gli stracci, vengono arrestati solo Li Pera e Siino, che «si pentono». Li Pera conferma dinanzi ai magistrati di Caltanissettra le sue accuse contro la procura di Palermo, e il capitano De Donno consegna agli stessi magistrati le bobine con le registrazioni dei suoi colloqui con Siino, in cui è lo stesso Siino a parlare dei magistrati di Palermo come dei suoi informatori. Ma Siino, una volta che da «pentito» parla solo con gli stessi magistrati, dichiara che sono stati i carabinieri a indurlo ad accusare i magistrati. Qualcuno dei magistrati tirati in ballo da Siino querela per calunnia De Donno, e il procuratore Caselli interroga l'allora Colonnello Mori, capo dei Ros e superiore di De Donno e quasi lo incrimina assieme al suo ufficiale. Ma non se ne farà di niente, Mori e De Donno non verranno incriminati e parallelamente la procura di Caltanissetta archivia le bobine con le accuse di Siino. E nessuno si occuperà più del dossier mafia-appalti. Nessuno tranne Paolo Borsellino che, dopo la strage di Capaci è più convinto che mai che bisogna risalire a quella inchiesta e a quel dossier per scoprire gli assassini di Falcone. Paolo Borsellino non ce l'ha fatta, non è riuscito a riaprire l'inchiesta mafia e appalti con Mori e De Donno. Tre settimane dopo il 25 giugno Paolo Borsellino è stato ucciso. Da quello stesso giorno Mori e De Donno e con loro i principali collaboratori, il colonnello Mauro Obinu, che si era recato negli Stati Uniti e aveva convinto Gaetano Badlamenti a venire in Italia a deporre al processo contro Giulio Andreotti per smentire Tommaso Buscetta, e il capitano Sergio De Caprio, che aveva catturato Totò Riina nonostante che Vito Ciancimino fosse stato improvvisamente arrestato mentre si accingeva a fornire a Mori e a De Donno la pianta del covo di Riina, vengono incriminati e processati dalla procura di Palermo con le accuse più assurde. «Non tutti vogliono sapere la verità -ha dichiarato il procuratore Antonio Ingroia, che è stato il pm dei processi a Mori e a De Donno e a Obinu e a De Caprio ed è quello che oggi interroga il figlio di Vito Ciancimino chiedendogli del papello e indaga sulla "trattativa" -. Colgo punti di contatto tra il clima del '96-'97 e oggi. Anche allora eravamo nell'anticamera di verità importanti. Quello che è unico in questi mesi è che per una serie di coincidenze un fascio di luce ha fatto sì che tra i protagonisti istituzionali ciascuno ha messo a fuoco ricordi evidentemente messi da parte». Possibile che questo fascio di luce non consenta ancora a chi di dovere di mettere a fuoco quel 25 giugno del 1992?

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