Due o tre cose che so di Ferruccio de Bortoli, il direttore del «Corriere» al centro di un «match» infuocato con Eugenio Scalfari, il fondatore di «Repubblica».
Ilsottoscritto era caposervizio e un giorno chiesi a Ferruccio se volesse diventare il mio «vice». Lui non ci pensò neppure un attimo e, ringraziandomi, mi rispose che preferiva restare redattore ordinario per sempre. Mi inchinai alla sua decisione, salvo poi ricredermi, dieci anni dopo, quando, addirittura diventò, per la prima volta, direttore del mitico «Corriere». La storiella mi sembra molto significativa perché dimostra come de Bortoli non sia affatto, per convinzione, un uomo di potere: lo è diventato suo malgrado. Ma il piccolo episodio conferma anche che Ferruccio non è troppo lusingato dalle sirene del Palazzo: cerca sempre di rifuggirle e anche, per questo, ha pagato qualche prezzo. L'unica missione che tenta di compiere al meglio è quella di proporre un giornalismo il più possibile equilibrato e trasparente, finendo, così, quasi per scontentare un po' tutti perché tutti vorrebbero una stampa piegata ai loro interessi. Un giornalismo coraggioso e non militante, quello di Ferruccio, come, purtroppo, non capita spesso di vedere negli ultimi tempi. Dovrebbe ricevere i complimenti dei colleghi che ancora credono in questo mestiere, ma invece viene apertamente criticato: il suo «Corriere», accusa Scalfari, è poco virile, manca di nerbo perché dovrebbe prendere a scudisciate, un giorno sì e l'altro pure, il governo Berlusconi. Non ci sono più parole per classificare la guerra per bande tra giornali e tv dove quasi tutte le grandi firme, a cominciare proprio da Barbapapà, appaiono al servizio del loro Principe, del loro editore, finendo per perdere la bussola di quello che dovrebbe essere il vero giornalismo basato essenzialmente sull'obiettività di giudizio. Secondo i canoni di «Repubblica», sempre meno quotidiano e sempre più partito, o sei antiberlusconiano a vita, oppure sei un pavido, un quaquaraquà o, peggio ancora, un cortigiano di professione, un mercenario del Cavaliere. Che giornalismo è, mai, questo? Certe volte, come giornalista prestato alla politica, mi chiedo quale delle due categorie sia caduta più in basso: mi è difficile rispondere. Di fronte a questi accadimenti, chissà cosa avrebbe detto Montanelli, che pure era il campione della vis polemica, il personaggio controcorrente per antonomasia (lui che aveva ideato una rubrica quotidiana con tale titolo...). Come avrebbe reagito, Cilindro, a uno spettacolo così triste e volgare, con i fatti assolutamente piegati alle opinioni e agli obiettivi da raggiungere? Gli avevo chiesto più volte che opinione avesse di Scalfari: riconosceva a Eugenio il fatto di essere — a differenza di lui, che si considerava un solista — un valido organizzatore e gestore di uomini oltreché un amministratore molto attento ai soldi, ma non aveva un'opinione altrettanto buona sul giornalismo che praticava. Oggi, se fosse ancora vivo, il grande Indro si sarebbe certamente turato il naso...