Violante: "I magistrati forza mediatica"
«Il senso di questo libro è cogliere il rapporto attuale tra le diverse magistrature e gli altri poteri. Da un lato Corte costituzionale, Corte dei conti, Consiglio di Stato, Procure e giudici ordinari; dall'altra parte Capo dello Stato, Parlamento, Governo, mezzi di informazione». Con queste parole l'ex presidente della Camera Luciano Violante ha presentato a palazzo Wedekind, sede del Tempo, «Magistrati» il suo ultimo saggio. Un testo in otto capitoli tutti incentrati sul ruolo della magistratura in Italia. E spiega: «L'idea di fondo è che il ruolo costituzionale dei magistrati è cambiato e che non tutti se ne sono accorti». Presidente il primo capitolo del suo libro si intitola «La lunga marcia della magistratura». Ce la vuole raccontare? «Dalla fine del '700 ad oggi, nel mondo occidentale, hanno convissuto due modelli di magistrato, uno di origine europea e l'altro di origine americana, che nascono entrambi dopo una rivoluzione, quella francese e quella americana. La rivoluzione francese fu fatta contro il sovrano e contro i suoi giudici. Una rivoluzione che vede nel Parlamento il garante dei diritti dei cittadini e nei giudici i meri esecutori delle leggi approvate dal Parlamento. Di indirizzo opposto fu invece la rivoluzione che portò, pochi anni prima, le colonie americane a ribellarsi all'Inghilterra. Una guerra condotta contro il sovrano inglese e il suo Parlamento che faceva le leggi contro i diritti fondamentali dei coloni americani. Alla fine di questa rivoluzione, emerge una Carta costituzionale nella quale i diritti fondamentali dei cittadini sono tutelati non dal Parlamento, ma dai giudici, anche contro la volontà del Parlamento. Due ruoli nettamente diversi: il giudice europeo diventa bocca della legge; il giudice americano è garante dei diritti dei cittadini anche contro il Parlamento. Poi è singolare la coincidenza temporale di due pronunce: la prima, uscita dall'Assemblea nazionale francese nel 1790 impedisce ai giudici addirittura di interpretare la legge costringendoli a sottostare al Parlamento. La seconda, nel 1803, solo tredici anni dopo, è una sentenza della Corte Suprema americana che si autoattribuì la funzione di abrogare le leggi da lei stessa ritenute contrarie alla Costituzione. Una decisione che generò grandi scandali ma che diede l'incipit per costituire nel mondo le Corti costituzionali moderne. Si aprì in quel momento il profilo del conflitto potenziale e permanente tra giudici e politica. Come accade in questi giorni tra Corte costituzionale e Governo». Vuol dire che i giudici oggi possono annullare le leggi del Parlamento grazie alla decisione della Corte Suprema americana? «Quella è la fonte. Dopo la seconda Guerra Mondiale e dopo l'esperienza nazista in Germania, fascista in Italia e il rischio di espansione del sistema sovietico, le carte costituzionali che nacquero in Europa affidarono alle Corti costituzionali la funzione di garanti dei diritti dei cittadini anche contro le leggi dei Parlamenti. Noi ora siamo nel passaggio in cui il giudice non è più il puro interprete della legge ma il garante dei cittadini. Qui si pone il problema con quali limiti e con quale senso di responsabilità». Ad esempio? «Bisogna mettere un punto fermo all'anarchia interpretativa. Quante volte accade di leggere che una sezione della Cassazione applica un principio di diritto ed un'alra sezione decide in modo totalmente contrario? Non parliamo dell'incertezza interpretativa nei tribunali e nelle corti d'appello, o nella giustizia amministrativa e in quella contabile. Il problema del vincolo delle interpretazioni è un problema che deve essere affrontato facendo in modo che quello che decidono i più alti livelli delle diverse magistrature, a certe condizioni, divenga vincolante per gli altri giudici». Un po' quello che è accaduto con il lodo Alfano bocciato perché ritenuto incostituzionale e che invece riprendeva le osservazioni fatte dalla stessa Corte cinque anni prima. «Vorrei prima leggere la sentenza sul lodo Alfano. E poi la prima sentenza aveva accennato ad altri profili di incostituzionalità. Le opposizioni, inoltre, avevano già presentato le pregiudiziali di incostituzionalità. Quindi non era ignoto né alla maggioranza, né al presidente del Consiglio, né ai suoi avvocati che la Corte avrebbe potuto bocciarlo». Allora perché il presidente della Repubblica l'ha firmato? «Il Presidente Napolitano ha fatto il suo dovere. Con la sua firma non dà un giudizio di costituzionalità ma dichiara, implicitamente, che non ci sono motivi per chiedere utilmente al Parlamento di riesaminare la legge. D'altra parte, in Italia come altrove, tutte le leggi dichiarate incostituzionali portano la firma del capo dello Stato». Sembra però che al Colle qualcosa sia sfuggito di mano. «Non mi pare. Parliamo di poteri reciprocamente indipendenti e non condizionabili. Napolitano non può né deve chiedere alla Consulta cosa fare. E viceversa. È la democrazia, bellezza! Si sarebbe detto in altri tempi». Però questa era una legge particolare. «In democrazia non esistono leggi particolari, in politica sì. In una democrazia costituzionale tutte le leggi sono uguali. Capisco però che le conseguenze sono diverse». Nel libro lei racconta due episodi importanti della storia d'Italia. Il primo quando, nel governo presieduto da Dini, il ministro della Giustizia Filippo Mancuso ordinò un'ispezione alla procura di Milano e per quello venne costretto alle dimissioni. L'altro riporta un conflitto tra il Csm e l'allora Guardasigilli Claudio Martelli per scegliere a chi affidare il ruolo di procuratore capo a Palermo. In questi due episodi viene alla luce un problema: il sistema della magistratura gode o meno di una eccessiva autonomia e autoreferenzialità? «Nel primo caso si trattava di uno scontro squisitamente politico. La maggioranza al Senato, che non era dello stesso colore di quella alla Camera, non riteneva che un governo tecnico potesse misurarsi su un atto squisitamente politico, come quella ispezione, alla quale era contrario anche il presidente del Consiglio, Lamberto Dini. Per quanto riguarda il secondo, devo dire che Martelli aveva ragione e la Corte costituzionale fissò il principio della leale collaborazione tra ministro e Csm». Ma ci sarà mai collaborazione? «Oggi c'è più collaborazione rispetto al passato». Cosa pensa della magistratura? «È una istituzione che ha enormi meriti e ha diritto alla riconoscenza della nazione; si pensi solo ai 24 magistrati uccisi da mafia e terrorismo. Ma ci sono anche cose che non vanno. Alcuni magistrati sono diventati una forza mediatica e si è stabilito un circuito perverso tra loro e alcuni giornalisti». Che cosa intende? «Un tempo accadeva che prima c'era l'inchiesta giornalistica e poi quella dei magistrati. Oggi invece accade il contrario. Prima c'è l'inchiesta giudiziaria e poi ci sono le inchieste giornalistiche, con rapporti particolarmente stretti, a volte, tra i magistrati che indagano e i giornalisti che scrivono. Luigi De Magistris è il caso più eclatante di come la magistratura possa diventare una forza mediatica». Lei nel 2006 venne nominato presidente della commissione Affari Costituzionali e in quel periodo stese la cosiddetta «bozza Violante» che avrebbe dovuto riformare la Costituzione. Allora c'era una convergenza di intenti sulla riforma, crede sia possibile ricominciare da dove la bozza si è arenata? «Perché no? Il federalismo fiscale è stato votato da maggioranza e opposizione. Lo stesso è accaduto al Senato per la legge che riforma la manovra di bilancio. Perché non si potrebbe ripetere lo stesso anche per quella riforma costituzionale? La vera questione però è se il governo vuole veramente fare la riforma. Ora il governo, ricorrendo sempre più spesso a decreti legge, maxiemendamenti e voti di fiducia agevola di gran lunga il proprio lavoro. Ma sarebbe illusorio pensare di poter proseguire a lungo. L'emergenza vale per i tempi brevi. Alla lunga, senza riforme, il sistema si spezza». Berlusconi però dice tutt'altro. Sostiene di avere pochi poteri e un'ipotetica riforma potrebbe darglieli. «Mi dica una sola cosa che non è riuscito a fare. Però se volesse fare un passo in avanti, gli ricordo che nella cosiddetta bozza Violante, il presidente del Consiglio poteva chiedere il voto a data fissa sui propri provvedimenti». Lo scorso aprile, vicino Piacenza, una piena ha distrutto un ponte sul Po. Per ricostruirlo il governo ha nominato un commissario straordinario. Perché non ricorrere alle vie ordinarie? «Perché si governa quotidianamente con i poteri di emergenza fuori di ogni controllo. È sicuramente una gran comodità. Ma l'abuso dell'emergenza alla lunga distrugge il sistema e non si riesce a governare più nulla». Andando un po' in dietro con gli anni crede che possiamo affidare completamente alla storia il tempo di Mani Pulite o ancora oggi ne subiamo le ripercussioni? «C'era la corruzione politica. La denunciavano persino il Papa e la Cei. Ma la politica non prese nessuna misura e delegò ai giudici il compito di liberare l'Italia dalla corruzione. Una battaglia che portò conseguenze drastiche. Ad esempio bastava un avviso di garanzia per far dimettere un ministro. I magistrati si rivestirono di quella funzione politica che avevano loro delegato proprio i partiti e il Parlamento». La sinistra però non fece nulla per evitare questo «Veniva così riconosciuta l'accusa di Enrico Berlinguer sulla "questione morale". La sinistra tifò in quella stagione. Ma le campagne più violente a sostegno dei processi contro i politici le fecero la Lega e An». Voi però lanciavate le monetine «Non so chi le lanciò. Fu un gesto barbaro. Lo dissi allora e lo confermo adesso». Alla fine però i magistrati si sono candidati nel centrosinistra. «Ce ne sono in entrambi gli schieramenti e in egual misura. Se si riferisce ad Antonio Di Pietro ricordiamo che fu Silvio Berlusconi a proporgli di diventare ministro dell'Interno, mentre era ancora magistrato. Poi invece lo candidammo noi, ma dopo che si era dimesso dalla magistratura». Oggi cosa pensa di Di Pietro? «Lo ho apprezzato come magistrato, lo stesso non posso dire come politico. Poi credo che Di Pietro dia, senza volerlo, un grande sostegno a Silvio Berlusconi». Come giudica invece l'opposizione del Pd? «Io vedo che il Pd critica il Premier più spesso su chi si porta a letto piuttosto che sulla sua politica. La mia impressione è fondata, questa è un'opposizione inadeguata». Qualcosa cambierà con le Primarie del 25 ottobre? «Se vince Bersani, sì. Io stimo Franceschini, ma ha governato questo Pd prima come vice di Veltroni e poi come segretario. E il Pd non è in buona salute». Lei è contro le primarie? «Ora le regole sono queste e si rispettano. Ma io vedo benissimo le primarie per le cariche istituzionali. Credo che dopo il 25 dovremmo riflettere sui modi più congrui per far partecipare gli elettori alle grandi scelte politiche del partito». In questi giorni si sta riaprendo tutto il capitolo legato alle stragi di mafia. Secondo lei c'è molto da scoprire sul caso Borsellino? «Credo che le uccisioni di Lima, Falcone, Borsellino e Ignazio Salvo siano necessariamente una legata all'altra. La mafia, dopo la caduta del muro di Berlino, liquidò definitivamente il passato e si premunì per il futuro. Sono in corso le indagini. Lasciamo lavorare i magistrati senza impossessarci di brandelli di verità a puri fini di lotta politica. Sarebbe il modo migliore per rispettare i caduti di Capaci e di via D'Amelio».