Il piano del Cav in cinque mosse
Sale sul palco con il suo solito completo blu e una camicia scura. Viene interrotto continuamente. Silvio Berlusconi tira dritto e avverte con tono grave: «Venendo qui mi sono domandato che cosa avrei pagato io questa mattina per non dover parlare a tanti amici». Prende un attimo di pausa e riprende: «Perché la situazione oggi nel Paese è di profondissima riflessione. E forse non siamo ancora pronti. Ma a giorni la dovremo fare». Dalla platea le urla lo accolgono, lui ci scherza su: «Se la mettiamo sul fisico mi tolgo la giacca». E plasticamente se la leva, si rimbocca le maniche e si mostra al pubblico meno formale, come se fosse sempre all’opera. Comincia con le storielle, le barzellette, racconta che all'aeroporto ha incontrato un vecchio amico che gli ha consigliato di soprassedere dal fare discorsi pesanti. «Come faccio a non parlare delle cose che ho dentro? Questo amico mi ha detto: "Be', è domenica!"». E così Berlusconi va avanti, parla di politica estera. Di che cosa voleva parlare? Silvio Berlusconi sta preparando una rivoluzione. Una rivoluzione complessiva dello Stato. Una riforma radicale e profonda. Di cui il comparto giustizia è solo una parte. Non l'unica. Sarà una rivoluzione in cinque mosse. Anzitutto i poteri del premier, visto che il Cavaliere pensa che siano limitati al punto che a oggi il capo del governo non può niminare o revocare un ministro. Il secondo capitolo è la ridefinizione del ruolo del Parlamento. Partendo dal superamento del bicameralismo, si passa al Senato delle Regioni sino alle modifiche dei regolamenti parlamentari. Quindi la riduzione di deputati e senatori ma si pensa a un generale dimagrimento anche di consiglieri regionali, comunali e affini. Altro punto è la ridefinizione delle alte istituzioni. La Corte Costituzionale, certo. Ma non solo. La presidenza della Repubblica, per esempio. E il Csm. Il terzo capitolo introduce il quarto, quello più scottante: la riforma della giustizia. E dunque separazione delle funzioni. Fabrizio Cicchitto la spiega così: «Sdoppiamento delle carriere, poteri di indagine del Pm e ruolo della polizia giudiziaria, riforma dell'elezione del Csm e della nomina e della composizione della Corte Costituzionale, immunità parlamentare». Infine, la quarta mossa: mettere tutto a giudizio degli elettori con un referendum. Berlusconi a Benevento ne accenna soltanto nell'ultima parte del suo discorso. Si limita a ricorda che a suo giudizio «non si può consentire di rivolgere infamie, improperi, insulti e volgarità a un premier eletto direttamente dal popolo, bisogna cambiare questa situazione». Quindi è tornato sulla Consulta a ribadendo di «non aver detto una parola fuori luogo perché non si può continuare così; non si può far lavorare il Parlamento per molto tempo e poi intervenire su questa decisione negando se stessi e negando una decisione che la Corte prese quattro anni fa». Sul lodo Alfano, ha insistito, la Corte ha messo in campo un «comportamento completamente sleale nei confronti dell'istituzione parlamentare e bisogna evitare che non si ritorni al popolo che non conta niente e a un Parlamento che non può legiferare a causa di una Corte che non è organo di garanzia ma organo politico». «In moltissime democrazie - ha aggiunto - non c'è bisogno di questa norma (l'immunità per le alte cariche, ndr) perché in Francia e Inghilterra i pm non sono autonomi e indipendenti nel più alto arbitrio, ma sono sottoposti al ministro della Giustizia e all'esecutivo». E quindi ha annunciato che si andrà avanti con il disegno di legge sulle intercettazioni. Il tutto senza dimenticare le riforme sociali destinando, ad esempio, i proventi della lotta all'evasione fiscale ai quozienti familiari e annunciando di voler rilanciare il piano per il Mezzogiorno. Di una cosa è sicura, Berlusconi. Non ci sarà un nuovo '94. Spiega il premier: «Venendo qui e leggendo i giornali mi sono chiesto cosa davvero sia cambiato dal 1993, quando l'intervento della magistratura fece fuori tutti i partiti e tutti i protagonisti di quei partiti furono costretti a lasciare, qualcuno anche l'Italia. Mi sono risposto che oggi, di diverso, c'è il fatto che abbiamo il consenso del 68% degli italiani e il fatto che abbiamo il Popolo della libertà: insomma di diverso ci siamo noi». E perché finora non si è proceduto? Fini e Bossi vorrebbero dialogo con l'opposizione. Berlusocni vuole andare avanti lo stesso: gli italiani sono con me, ripete.