Mondadori, quello sfogo del Cav contro Andreotti e Craxi
{{IMG_SX}}Conservo ancora nitido il ricordo di quella lunga telefonata di Silvio Berlusconi fattami il 26 aprile del 1991. Era quasi mezzanotte. Volle sfogarsi con me, che allora dirigevo Il Giorno, contro la pur metaforica «pistola alla tempia» che lo stava obbligando ad accettare l'accordo con Carlo De Benedetti per chiudere la lunga vertenza della Mondadori. Mancavano solo quattro giorni all'annuncio dell'intesa, fatto il 30 aprile in un albergo di Milano da Giuseppe Ciarrapico, che per circa due mesi aveva mediato per risolvere la partita in sede extragiudiziaria. La Corte d'Appello di Roma aveva da poco riconosciuto il diritto di Berlusconi, contestato invece dal tribunale di Milano in prima istanza, di possedere la Mondadori avendone acquistato nel 1989 le azioni della famiglia Formenton. Sulle quali invece De Benedetti aveva vantato un diritto di prelazione. Il quadro dell'accordo anticipatomi per sommi capi quella notte da Berlusconi, che chiamerei "lodo Ciarrapico" anziché "lodo Mondadori", come viene invece definito comunemente, non corrisponde per niente a quello che emerge dalla sentenza emessa in questi giorni da un giudice civile di Milano per condannare Berlusconi ad un maxi-risarcimento di 750 milioni di euro a un De Benedetti costretto più di diciotto anni fa, poverino, ad un'intesa capestro con il suo rivale. A sentirsi il cappio, o la canna, al collo quella notte era Berlusconi, non De Benedetti, che avrebbe potuto sottrarsi a qualsiasi intesa con il suo concorrente se veramente avesse pensato di avere ragione e di poterla spuntare in un grado di giustizia successivo a quello d'appello. Che gli aveva dato appena torto solo a causa — sostiene lui — della corruzione successivamente accertata e sanzionata del magistrato estensore dell'atto a favore di Berlusconi, condiviso dagli altri giudici della sezione per la sua obbiettiva fondatezza, non certo per incompetenza o perché corrotti anche loro dall'avvocato Cesare Previti. «Mi tocca subire una prepotenza della politica», mi disse quella notte un Berlusconi furente, prima di usare l'immagine della «pistola alla tempia». Ma chi, in particolare, gli aveva puntato quell'arma obbligandolo ad accettare la mediazione di Ciarrapico, curiosamente destinato peraltro a diventare dopo 17 anni un senatore eletto nelle liste di un partito ch'egli allora non immaginava nemmeno di creare? Berlusconi fu esplicito e immediato nella risposta: Andreotti, che era in quel momento presidente del Consiglio, e di cui erano non noti ma arcinoti i rapporti di amicizia e di simpatia con quello che tutti chiamavano il Ciarra. Del quale francamente stento ad accettare la versione che dà oggi dell'origine dell'incarico svolto allora per chiudere la vertenza Mondadori. «Si sono scritte — ha dichiarato in questi giorni Ciarrapico — molte balle. Ad Andreotti e a Craxi non fregava nulla della vicenda. L'idea nacque a pranzo con il mio fraterno amico Carlo Caracciolo», l'ex presidente del gruppo Espresso morto l'anno scorso. Anche di Bettino Craxi mi parlò invece quella notte Berlusconi, deluso di non esserselo trovato a fianco in quel passaggio cruciale. Ne eravamo entrambi molto amici, per cui gli costò una certa fatica sfogarsi con me pure contro di lui, che non molti anni prima, quando era presidente del Consiglio, gli aveva salvato con ben due decreti legge le televisioni minacciate con l'oscuramento dai pretori d'assalto, sostenitori dell'arcaico e odioso monopolio pubblico della Rai-Tv. Nell'occasione del lodo Ciarrapico invece Berlusconi si sentì abbandonato «pure da Bettino». Ed ebbi l'impressione, non so se a torto o a ragione, francamente, ch'egli gradisse che io glielo riferissi. Cosa che feci alla prima occasione che mi capitò di incontrarlo ricevendo un «liscia e busso» che non ebbi il coraggio, in verità, di riportare poi a Berlusconi, temendo di dargli un ulteriore dispiacere. Ma che ora voglio riferire, pur nella sua durezza, anche per contestare l'infamante rappresentazione dei rapporti tra Berlusconi e Craxi fatta lunedì scorso sulla solita Repubblica dall'altrettanto solito Giuseppe D'Avanzo ricostruendo così la storia del Cavaliere: «La politica gli consente di tenere a battesimo, fuori della legge, il primo network televisivo nazionale. La collusione con la politica — la corruzione d'un capo di governo e il controllo di ottanta parlamentari — gli permette di ottenere dal presidente del Consiglio corrotto due decreti d'urgenza e dal Parlamento una legge che impone il duopolio Rai-Fininvest", la legge cioè approvata nell'agosto del 1990, che porta il nome dell'allora ministro delle Poste Oscar Mammì, del Pri. Ebbene, sentite che cosa mi disse Craxi quando gli raccontai dello sfogo di Berlusconi contro il lodo Ciarrapico: «Ma che cazzo vuole ancora Silvio? Si accontenti di quello che porta a casa e non rompa i coglioni. Mi aveva parlato dell'operazione Mondadori come di una cosa a tenuta stagna. Gli avevo chiesto con un certo scetticismo, poi confermato dai fatti, se ne fosse proprio sicuro. La legge ora gli toglie peraltro la possibilità di possedere insieme televisioni e giornali quotidiani. Porti a casa quello che può, lasci perdere Repubblica e giornali locali del gruppo e la chiuda qui».