Di Pietro in pressing sui giudici
Antonio Di Pietro ci prova. Alla vigilia di quella che potrebbe essere una delle decisioni più importanti prese dalla Corte Costituzionale, il leader dell'Idv si augura che la Consulta non avalli il lodo Alfano, scrivendo «una brutta pagina» nella sua storia sessantennale perché «gli interessi di un corruttore, che vuole scampare al peggio, non valgono una briciola della reputazione della Corte». Per l'ex pm il fatto che i giudici debbano discutere se «considerare 4 cittadini più uguali degli altri di fronte alla legge, testimonia che c'è già, nei fatti, la violazione dell'articolo 3 della Costituzione». E la scelta da parte di Fini di rinunciare alla norma «significa che questo lodo odora di immoralità». Ma le parole di Di Pietro non preoccupano Gaetano Pecorella parlamentare-avvocato del Pdl che oggi, assieme ai colleghi Pietro Longo e Niccolò Ghedini, interverrà in udienza pubblica davanti ai giudici della Consulta a difesa del premier. «La Corte Costituzionale procede al di fuori delle influenze esterne - spiega -: né la decisione del presidente Fini, né le motivazioni del tribunale di Milano sul lodo Mondadori possono influenzare la Corte». E a chi gli chiede un pronostico sul verdetto della Consulta, Pecorella risponde: «Di pronostici non ne faccio mai perché se sono pessimistici si soffre prima del tempo, se sono positivi ci si resta male in caso di bocciatura». È la seconda volta che il deputato Pdl difende il premier davanti ai giudici dell'alta Corte: lo fece già quattro anni fa, quando difese il «lodo Schifani», poi bocciato dalla Consulta per violazione del principio di uguaglianza (art. 3 della Costituzione) e del diritto di difesa (art. 24). «Faremo rilevare alla Corte che i punti di incostituzionalità rilevati nella precedente sentenza sono stati tutti sanati dalla legge successiva». In particolare - afferma Pecorella - «io mi soffermerò sul fatto che il lodo Alfano non viola la parità tra premier e ministri, perché non possono essere considerati sullo stesso piano, specialmente dopo la riforma della legge elettorale del 2004. Il premier, infatti, viene ora designato dalla sovranità popolare ed ha il compito di realizzare il programma di governo. Quindi non può considerarsi un "primus inter pares"».