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Non facciamo pubblicità a Santoro

Marco Travaglio e Michele Santoro

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Di tutto il baccano di questi giorni una cosa è certa: Michele Santoro ha goduto gratuitamente, canone Rai a parte, di una formidabile grancassa pubblicitaria. Grazie alle ire di tanti spettatori, grazie a noi che l'abbiamo rincorso per dimostrarne l'indubbia faziosità. E resterà il cruccio di avergli regalato un boom di ascolti, consentendogli una straordinaria azione di marketing automartirizzante. Cosa fatta capo ha, comunque. E cosa che ha capo e coda è che il centrodestra non può continuare a porsi il problema dell'informazione in televisione solo come un problema di sottrazione: Santoro, Gabbanelli, Floris eccetera hanno troppo spazio, leviamoglielo. È il modo migliore, assieme all'idea – diciamo – opinabile dello sciopero del canone Rai, per costruire santini resistenziali, prestando il fianco alle accuse di affogare il pluralismo nelle pratiche di una mezza censura e di impoverire la Rai per ammazzare il servizio pubblico.   Il Popolo della Libertà dovrebbe porsi, come ha spiegato nitidamente ieri Fabrizio Dell'Orefice, in una prospettiva completamente opposta. Prendo a prestito le parole di Mario Valducci: «A trasmissioni di un certo segno politico deve corrispondere un analogo numero di programmi di segno opposto». Ecco, è così facile, non bisogna essere luminari del giornalismo politico televisivo.   Nessuno, finalmente, potrebbe accusare i vertici Rai, i ministri di questo governo o qualche Autorità di giocare a soffocare la libertà d'informazione, e il pluralismo diventerebbe davvero un'abitudine dei palinsesti, un menù più ricco da mettere a disposizione dei telespettatori.   Il ribaltamento di prospettiva, magari, è proprio questo: non agire per sottrazione ma per addizione, aumentare l'offerta di informazione. Migliorarla. Dimostrare (l'associazione Lettera 22 lo sostiene meritoriamente da un paio di anni) che anche nell'area giornalistico-culturale del centrodestra esistono le idee, le energie, le professionalità giuste per produrre programmi che vadano in prima serata, o magari in una buona seconda fascia serale, e non si sgonfino alla prova dell'audience come bolle di sapone. Perché la legge degli ascolti potrà essere anche tacciata di totalitarismo ugualitario e massificazione verso il basso, ma certo ha il pregio di stabilire se un programma piace davvero o no alla gente. Santoro vince perché sarà pure, e lo è, fazioso in termini esasperanti, ma la sua capacità di stare e fare televisione non si discute. Il resto sono giaculatorie in politichese. E questa, vista in altra ottica, è la nota dolente con cui si deve cominciare a fare i conti: negli anni scorsi è la gente, e non le centrali progressiste del Male, che ha affondato uno dopo l'altro i pochi tentativi di metter su trasmissioni, di approfondimento o talk show, anche schierate politicamente vicino al centrodestra (il che elimina tutte quelli esistenti oggi) ma sufficientemente corazzate dal punto di vista della qualità. A prescindere dalle buone intenzioni di chi li ha fatti, quei programmi sono stati deboli nei contenuti. Centrati su format lacunosi. Privi anche di quell'ingrediente di spettacolarizzazione e drammatizzazione che — è questa la legge della tivvù — serve per mantenere il pubblico sintonizzato e non farsi cancellare alla quarta puntata. È un'equazione, quella di proporre un'informazione al tempo stesso completa, qualitativamente alta e pure sexy, sempre più difficile da ottenere di fronte all'esplosione della competizione tra canali. È, però, l'unica strada da imboccare se si vuole smetterla con il piagnisteo su «santori» e «santorini», fazi e faziosi, non Floris ma opere di bene, ed esplorare, almeno esplorare, la possibilità di sfidare il monopolio della sinistra televisiva. Oggi le condizioni ci sono tutte perché si cominci seriamente a organizzare qualche idea nuova di trasmissione, di spazio informativo politico e culturale che dia davvero voce all'Italia maggioritaria. Trovando registi, produttori, conduttori, autori, risorse, volti, idee, strategie di palinsesto, un marketing suadente. Trovando il coraggio di proporre una novità e di sostenerla di fronte alla critica e a eventuali share non fantasmagorici (il caso di Ballarò è eloquente). Senza troppa fretta. Senza la smania di sfornare prodotti insipidi o scotti. Senza aver la fregola di gettare carne fresca nella bocca famelica dell'audience per vedere quello che succede e poi magari, se va male, rimandare al 2045 il prossimo tentativo.

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