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Non chiamiamoli più processi indiziari

Alberto Stasi

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Lo facciamo spesso nei giornali: ascoltare il parere, sotto forma di intervista o di commento, di un avvocato penalista, di un magistrato o di un politico per dare una lettura di decisioni che, quando si parla di processi indiziari, passano sopra la testa di troppe persone. Quindi, del senso comune. Avremmo potuto farlo anche oggi ma, senza ledere la portata dei qualificati interventi che continueremo a ospitare, per una volta abbiamo inteso «leggere» insieme un libro che da troppo tempo è nello scaffale dei nostri pensieri. E, probabilmente, di molti di voi. È un noir? Magari. La letteratura «gialla» piace a tanti perché all'interno di scenari più o meno scuri, appena tratteggiati o descritti con dovizia di particolari, la vicenda, ovvero il «delittaccio», offre svariate interpretazioni: l'istinto e il sospetto per la prima ricostruzione sono i sintomi maggiormente presenti, ma per arrivare a una diagnosi vera e propria occorrono le prove. Parenti strette degli indizi. Alla fine il libro svela inevitabilmente l'assassino e le situazioni che lo incastrano sono tali che a volte arriva persino la confessione. Ma il libro giallo dei processi indiziari resta in Italia con le ultime dieci pagine incollate. Quindi insoluto, inutile. Capace persino di diventare un trattato del «delitto perfetto». E pensare che una volta si diceva che non esistesse. Ora una deriva filmica, adottata a piene mani dalla televisione, si diverte a farci entrare nel romanzo del delitto, nel microcosmo di un serial killer o nella personalità deviata dell'insospettabile della porta accanto. Diciamo pure che in questi remake delle americanate tutte effetti speciali, i nostri registi fanno molto di più di quello che in realtà fa la giustizia nelle aule deputate. Anche se i titoli sono a volte troppo ottimistici quando si parla di «delitti imperfetti». E invece dovrebbe essere proprio così. Soprattutto oggi che il pc non ha segreti e il dna è il testimone assente. Ora ci piacerebbe capire se le indagini sono imperfette o se i legali italiani sono fenomeni tali da poter oscurare «l'avvocato di tutti», Perry Mason, riscrivendone tutte le sceneggiature.   Col risultato di far rivoltare nella tomba il suo interprete, Raymond Burr, e il suo creatore, il geniale scrittore statunitense Erle Stanley Gardner. La verità sta forse nel mezzo. I nostri investigatori sono in gamba, esattamente come gli avvocati chiamati a difenderci: purtroppo non si riesce mai a capire perché la scena del delitto cambi in continuazione. Siamo convinti che in un set cinematografico ci sia più ordine, vigano regole precise, tempi inconfutabili con reperti da non toccare con cento mani. E un unico regista. Il problema è che fuori della finzione scenica il regista è proprio l'assassino. Che, però, se ha agito da solo ha poi trovato complici in una difesa più o meno disperata di se stesso. Nessun indizio da parte nostra su Alberto Stasi, ma ci viene in mente anche il caso della contessa Alberica Filo della Torre o quello di Simonetta Cesaroni: delitti perfetti. Sì, obietterà qualcuno, ma allora non c'era la prova del dna... Macché. Spostiamoci da Roma e arriviamo a Perugia per assistere all'involuzione di un altro processo - quello sull'omicidio di Meredith Kercher - questa volta «ipertecnologico». Insomma, non vogliamo né innocentisti né colpevolisti: solo una sacrosanta verità.

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