"Il Fatto" vuole tutti in galera
È incontestabile che "Il Fatto" vorrebbe tutto il governo in galera. Del resto, Padellaro, Travaglio e compagni non ne fanno mistero. In tre giorni hanno "rivelato" che Gianni Letta è indagato e che il ministro Alfano è inquisito. A chi lo avesse dimenticato, ieri hanno pure ricordato i nomi di responsabili di dicasteri e di sottosegretari sotto indagini, perlopiù di carattere amministrativo, talvolta per reati connessi ai loro uffici, come quasi sempre accaduto del resto, senza precisare che quei reati ipotizzati, sarebbero stati commessi in tempi lontani, quando neppure gli interessati pensavano di far parte di un governo. Dettagli. La lettura del nuovo giornale è, comunque, faticosa. La solfa, infatti, è sempre la stessa: mai una volta che vengano ricordate le indagini in corso a carico di esponenti della sinistra (anche di quella barese, magari). Ma il "travaglismo", si sa, è una visione del mondo e come tale assolutista. Ragion per cui tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dall'altra. Smentite, precisazioni? Non servono a nulla. Si finisce nel tritacarne e tanto basta a ritenere esclusi dalla società civile gli "incivili" finiti nel mirino dei giustizialisti del "Fatto". I quali, naturalmente, si guardano bene dall'approfondire, dal chiedere riscontri, dal manifestare qualche dubbio. E perché dovrebbero? Loro si limitano a stilare liste di proscrizione: più comodo e più facile. Soprattutto più redditizio sotto il profilo dell'immagine e della vendita del prodotto. Basta avere accesso alle fonti giuste, quelle stesse che riforniscono il "Fatto" dei fatti con cui avvelenano i pozzi della politica aggredendo chiunque, senza risparmio. Non ricorda i radiosi giorni della Rivoluzione francese questo giornalismo usato come ghigliottina? E non trovate qualche assonanza con rivoluzioni, ancor più cruente, del secolo passato nel cui ambito si decideva del destino di uomini e donne soltanto perché ritenuti "infetti"? I processi sommari in Russia ai borghesi "corrotti" si fondarono sul principio di legalità rivoluzionaria. La stessa che in Cina si sviluppò sulle pagine di giornali che additavano all'opinione pubblica i nemici del popolo e li incitavano a mobilitarsi contro di loro. L'altro giorno il nuovo quotidiano giacobino ha titolato: "Ecco il piano per distruggere la Rai". Pensavamo di trovarvi davvero qualcosa di nuovo nell'articolo. Neppure per sogno. Il problema era tutto nel contratto non rinnovato dal dg Masi a Travaglio e alle ambasce di Santoro per le inquietudini procurategli dall'azienda. La quale non è andata a fuoco, ma con "AnnoZero" ha registrato un alto picco di tolleranza al servizio pubblico. Santoro, con l'abilità che gli va riconosciuta, ha messo alla berlina il presidente del Consiglio e già che c'era ha portato sul video l'Italia peggiore, fino a santificare signorine di dubbia (o di nessuna) moralità come esempi di attivo e purtroppo bistrattato civismo, utili ad inguaiare una persona (poco importa se pubblica) e a valorizzarne le indubbie capacità nell'inquinare la lotta politica. Questo tipo di giornalismo dovrebbe far ridere. Invece fa incazzare quando propone come satira la rappresentazione meschina e vigliacca di sei ragazzi italiani morti per difendere la libertà anche dei miliardari dell'informazione, proposta da un avanzo del comunismo che fu il quale, nell'azienda televisiva "berlusconizzata", deve starci parecchio bene visto che non ci pensa minimamente a togliere il disturbo. E questo è un altro "fatto". Che Padellaro, Travaglio e compagni non racconteranno mai.