Cerca
Cerca
Edicola digitale
+

Stoici soldati, vittime di una guerra che non c'è

default_image

  • a
  • a
  • a

Troppi.C'erano degli anni, ai tempi della guerra fredda, in cui nei gruppi di volo dei reparti da combattimento ci si guardava negli occhi - eravamo pochi - pensando a chi sarebbe toccata la prossima malasorte. Ma nessuno avrebbe mai rinunciato ad andare in volo, per nessuna cosa al mondo. Era stata una scelta, ed avevamo una missione da compiere: addestrarci per essere in grado di combattere il Patto di Varsavia, o decollare su allarme, nel giro di una manciata di minuti, quando i radar della difesa aerea vedevano qualcosa di sospetto. Nessuno si sarebbe mai tirato indietro. Era la nostra quotidianità. Ieri mattina, a San Paolo, mentre mi aggiravo tra i veterani con il basco amaranto e osservavo i volti dei paracadutisti in uniforme che, irrigiditi sull'attenti, vedevano sfilare verso l'altare le sei bare tricolori, non riuscivo a scacciare dalla mente un pensiero molesto. Il Patto di Varsavia è caduto assieme al comunismo, e la guerra fredda è finita. Allora si moriva con gli incidenti, spesso per eccessivo realismo nell'addestramento. Anche i paracadutisti morivano, addestrandosi ai lanci. Magari con il vecchio paracadute IF-41, residuato bellico che, pur mostrando segni di strappi e rammendi, non prevedeva l'uso del paracadute ausiliario. Ma questi soldati, invece, sono morti a causa di una guerra che non c'è. Senza combattere. Eppure, anche senza guerra c'è il nemico - se è ancora lecito chiamarlo così - che può decidere di colpirli e ucciderli a piacimento, uscendo da santuari che, con ogni probabilità, sono civili abitazioni di villaggi e città. E, quindi, intoccabili. Ma loro, stoici e disciplinati, continuano ogni giorno a fare il loro dovere, pattugliando rischiosi percorsi a bordo dei Lince, facendo "presenza", ma lasciando ai loro assassini l'iniziativa. Continuano così, a basso profilo, guardandosi negli occhi prima di partire in pattuglia, sperando che ciò che può accadere non si avveri. Esattamente come noi ai gruppi di volo, cinquant'anni fa. Li chiamiamo Eroi, ma ho pensato che forse loro non lo gradiscono. Si sentono eroi di una quotidianità che è estranea all'ufficialità di questi momenti, questo sì. Ma, osservandoli mentre sfilavano le bare, ho immaginato che il loro pensiero stesse volando verso i commilitoni che hanno combattuto ad El Alamein, a Nettuno, a Poggio Rusco. E forse li hanno anche invidiati.

Dai blog