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(...) è riuscito a rottamare anni di giustizialismo, affermando la prevalenza della politica sulla giustizia e del mandato popolare sull'azione dei magistrati.

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Peccatosi sia fatto prendere dall'entusiasmo, spingendosi a sostenere tesi avventurose. Almeno tre meritano d'essere riassunte ed esaminate. Prima tesi: gli indagati devono restare al loro posto. Emiliano dice d'essere sicuro che il presidente della sua regione, Nichi Vendola, non ha mai fatto nulla di male. Buon per loro. Noi siamo un pizzico più formali, attestandoci nel rispetto della legge: nessuno può sostenere il contrario, fino a quando su Vendola non pesi una condanna definitiva. La sinistra, però, da anni, reclama le dimissioni di chi è indagato, scambiando l'avviso di garanzia per un avviso di condanna. Emiliano, oltre tutto, viene dalla magistratura, essendo, al tempo stesso, esponente della sinistra e delle toghe che fanno politica. Quindi, assai significativa l'inversione di marcia: «Un soggetto che non può essere sostituito non può dimettersi e buttare all'aria la sua responsabilità». Considerato che l'essere indagati compromette la propria innocenza quanto l'essere condannati in primo o secondo grado, vale a dire per niente, ne deriva che il «lodo Emiliano» copre assai più del «lodo Alfano». Seconda tesi: fu Emiliano a indagare i presunti affari illeciti di Giampaolo Tarantini, già nel 2001, ma poi si dedicò alla politica e il suo successore era in altre faccende affaccendato. Qui le cose si fanno spericolate, perché sia aprono falle sia nella giustizia che nella politica. Ma che razza di procura è quella in cui uno dice di avere raccolto «già tutto» e gli altri non procedono perché occupati? A far che? E per quanto tempo? Delle due l'una: o Emiliano straparla, oppure la procura deve rispondere della grave omissione. La cosa strana, però, è che il procuratore che aveva scoperto tutto, compreso «il ruolo di Tedesco e delle sue aziende di famiglia», abbraccia la propria passione politica e si candida nello stesso schieramento che ospitava quelli di cui sapeva tutto, e non esattamente tutto il bene. Tanto qua, sostiene Emiliano, siamo tutti dalemiani. Ce ne compiacciamo, è commovente tanta unità d'intenti, ma così stanti le cose si ha la sgradevole sensazione che abbia indagato ieri i suoi compagni di oggi. Non inappuntabile. Terza tesi: è vero, c'è un intreccio fra politica ed affari familiari, ma gli assessori comunali sono persone di alto livello. Suggestivo, ma non soddisfacente. Emiliano, difatti, riconosce che Annabella Degennaro, sua assessore, è effettivamente la nipote di quel Degennaro che fa l'appaltatore al comune, che, cioè, ha fatto affari (leciti, fino a prova del contrario) con la municipalità, e che è anche il finanziatore della lista civica che appoggiò lo stesso Emiliano, talché egli s'è sentito in dovere di sdebitarsi, arruolando la nipote. Tutto vero, ma, aggiunge Emiliano, il citato zio è stato candidato alle elezioni europee, «per volere di D'Alema», e la ragazza «parla quattro lingue e lavorava a Washington». Ora, premesso che il volere sempre tirare in ballo D'Alema può significare che la Puglia è stata degradata a feudo personale, oppure che chi si sente in pericolo avverte i propri capi di essere pronto a fare un macello, modello Sansone ed i filistei, la domanda che le parole di Emiliano impongono è la seguente: quanto pensa di guadagnare, facendo l'assessore, questa portentosa signora? Può darsi sia tornata per amor patrio, o meglio, per amor di campanile, ma con quel popò di carriera che le si era aperta, ci sono da chiarire anche le altre convenienze. Davide Giacalone

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