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"Non posso dire tornate a casa"

La madre del soldato Roberto Valente

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Rientreranno in Italia domenica le salme dei sei parà della folgore, vittime dell'attentato di mercoledì scorso a Kabul e lunedì nella Basilica di San Paolo fuori le mura, alla prenza delle più alte cariche dello Stato, si terranno i funerali solenni, come fu per i caduti della strage di Nassirya, sei anni fa. Intanto padri e madri, amici e parenti dei caduti, ognuno con le sue particolarità, con un aneddoto, una storia o una battuta parlano della vita dei loro ragazzi, tra il dolore insopportabile del distacco e la coscienza della perdita irreversibile che si fa più vivida. Tiene stretta in mano la carta d'identità del figlio la signora Lucia, madre del sergente maggiore Roberto Valente, 37 anni, e la mostra con orgoglio ai giornalisti, mentre gli occhi chiarile si riempiono di lacrime: «È stato un distacco troppo duro - dice- e ai militari in missione dico cercate di uguagliarlo in tutte le sue azioni e pensieri». Ai cronisti che le domandano cosa si aspetta dallo Stato risponde: «Facciano quello che vogliono, io sono contenta perchè anche loro l'hanno conosciuto e apprezzato. Non posso dire - ha concluso - ai militari ancora a Kabul di tornare a casa». «Mio figlio -conclude- era un soldato con la "S" maiuscola. Fare il militare gli piaceva, era proprio una cosa che sentiva dentro. Prima di partire mi ha detto "mamma resta sempre la nostra quercia". L'ho salutato l'altro giorno e già ieri mattina non c'era più». Roberto, precedentemente, era stato nei bersaglieri ed era entrato nell'esercito per scelta,«non per necessità», sottolinea la madre che racconta come, nonostante la difficoltà della sua missione, non avesse «mai fatto trasparire la sua preoccupazione» e aggiunge: «Mi raccontava: "Mamma, noi andiamo là a portare un po' di pace e sapessi come vivono..."». «Mamma, non essere triste - aveva detto il caporalmaggiore Massimiliano Randino, 32 anni, che era appena rientrato da una licenza - parto in anticipo, ma siamo stati insieme quasi due settiamane e abbiamo anche festeggiato il matrimonio di Angela (la sorella). Ora è tempo che io torni a Kabul e sono contento di partire prima perchè lì hanno bisogno di me». E ieri è già tornato tra i banchi della sua classe il figlio del tenente della Folgore Antonio Fortunato, 35 anni. Una scelta, quella del bambino, non priva di difficoltà: «Come faccio a tornare a scuola, lo sanno tutti che è morto papà, ora mi prenderanno in giro» - ha detto alla psicologa che sta assistendo la famiglia, dopo averle spiegato che il papà era stato portato via dal «diavolo». A Solarussa, in provincia di Oristano, un grande lenzuolo bianco con la scritta «Ciao Matteo» è stato appesso in ricordo una delle vittima più giovani, Matteo Mureddu, 26 anni. Era partito sei anni fa dal paesino sardo per realizzare il suo sogno, lasciando gli amici e la famiglia. Il fratello Stefano, di 38 anni, anch'egli paracadustista, ha prestato servizio in Afghanistan fino alla scorsa primavera. Ora anche lui è rientrato da Pisa per unirsi ai genitori e alla sorella Cinzia. «Lo chiamavamo Rambo - dice Ippazio, fratello di Davide Ricchiuto, 26 anni - non si fermava davanti a niente e non aveva paura di nulla. Era testardo. Sono orgoglioso di lui ed ero felice di quello che faceva, della sua scelta di vita. Ci sentivamo spesso al telefono, ma ultimamente lo sentivo diverso, come se fosse preoccupato. É successo a lui quello che è accaduto a tanti altri ragazzi che indossano la divisa, forse era destino». Una famiglia semplice, quella di Davide Ricchiuto, con tre figli (lui era il secondo), la mamma casalinga e il papà, Angelo, che da giovane era emigrato in Svizzera per lavorare. «Mio figlio non era entusiasta di tornare in Afghanistan - dice il padre di Giandomenico Pistonami, 26 anni - prima di partire per la sua ultima missione, il 4 maggio scorso, lo aveva confidato a noi e ai suoi amici. Ci aveva anche detto che la vita a Kabul era molto dura, il pericolo sempre in agguato e spesso, a causa del protrarsi delle operazioni, i militari dovevano sopportare fame e stanchezza».

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