Morire per costruire scuole e ospedali
Si chiama Cimic ed è l'altra faccia della guerra. Si tratta della Civil Military Cooperation, l'attività a sostegno della popolazione svolta dai militari nei teatri internazionali, in cui gli italiani sembrano essere piuttosto portati. Ovviamente, non sono solo rose e fiori e le bandiere a mezz'asta nella basi Isaf, in Afghanistan, lo dimostrano. Ma è proprio in un teatro così critico che queste attività sono ritenute più importanti. Il Cimic, infatti, è parte integrante della strategia militare, perché ha lo scopo dichiarato di guadagnare la fiducia della gente, creare consenso e, con esso, un terreno adatto per operare in sicurezza. O almeno la sicurezza possibile. Nelle aree di crisi, ha, però, un indubbio valore civile. Cimic, infatti, significa scuole, ospedali, pozzi, orfanotrofi e carceri. Vuol dire medici, in un Paese che vanta un amaro primato in tema di mortalità infantile, contendendosi il podio con le nazioni africane. L'ospedale pediatrico, l'unico pubblico, dopo quello di Kabul, inaugurato nel 2008 è quindi una risorsa a cui attingono anche dalle province limitrofe. I medici, militari, sono visti anche come dispensatori di merendine e bottigliette d'acqua minerale, ed è per questo che ogni giorno, fuori agli ambulatori allestiti dentro le basi, la fila aumenta. Nella base della Valle di Musahi, l'avamposto a circa trenta chilometri da Kabul, i pazienti sono principalmente bambini, accompagnati da sorelle poco più grandi di loro, che hanno il volto già adulto; nell'ambulatorio di Camp Vanini ad Herat, invece, sono per lo più mamme con i figli, coperte dal classico burqa, ad attendere il loro turno, sedute per strada, mattina e pomeriggio. L'obiettivo non è solo farsi curare, ma tornare indietro con un bottino di cibo e medicinali. Questo è il Cimic italiano in Afghanistan, partendo da Kabul e, spostandoci più a ovest, a Herat, la zona dove ha sede il PRT, il Provincial Reconstrution Team, che si occupa di ricostruzione civile. È in questo tipo di attività che si può provare a tastare il polso della situazione reale afghana, liberandosi degli ingombranti giubbotti antiproiettile ed elmetto che, se è vero che proteggono, è vero anche che pongono una barriera col mondo che hai di fronte. Ed è durante la consegna di materiale didattico a Bala Morghab che si osservano bimbi di tutte le età, divisi in base al sesso, ansiosi di ricevere quaderni e qualche zainetto, donati dalle aziende italiane. Sono messi in fila dai maestri che li tengono a bada con un lungo ramo, parente della nostra lontana bacchetta. A Herat, invece, gli studenti sembrano più disciplinati. La scuola è più grande, realizzata nel 2009 dal «Governo italiano per la Repubblica islamica dell'Afghanistan», recita una targa all'ingresso, e ospita migliaia di studenti, che fanno i turni a partire dalla mattina alle sei. Da quando gli italiani hanno preso la guida del PRT, nel 2005, è stata finanziata la costruzione di 34 scuole, di 11 Health Center , 647 pozzi e un nuovo carcere femminile. E ancora progetti di formazione all'interno dell'Università e dell'ospedale pediatrico. Le strade continuano a essere, invece, poco più di un miraggio: 120 chilometri, circa, i tratti costruiti.