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Gli italiani non scappano

Kabul, un soldato italiano sul luogo dell'attentato

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Signori del governo e signori della maggioranza così non va. Il solo fatto di aver messo nell'agenda politica nazionale ed internazionale l'ipotesi di un ritiro delle truppe italiane dall'Afghanistan a poche ore dalla morte dei nostri sei paracadutisti segna un grave abbassamento della tensione ed indica una pericolosa inclinazione ad uscire dai corretti binari di comportamento istituzionale. Certo, Berlusconi si è sforzato di chiarire, precisare, smussare, così come hanno fatto i ministri degli Esteri e della Difesa. Ma il solo parlare dell'argomento ora (Bossi ha iniziato) è semplicemente inaccettabile.C'è il tempo per le riflessioni e per i cambiamenti d'opinione. Ma c'è anche il tempo per il rispetto e per la fermezza. L'Italia giudica la missione in Afghanistan strategica da diversi anni e tale orientamento non è cambiato con il mutare del colore politico della coalizione di maggioranza. Berlusconi e Prodi, tanto per essere chiari, hanno usato in Parlamento toni assai simili. Questo è un valore per il nostro Paese, che mostra così (come per la missione in Libano) una capacità di mantenere fede agli impegni internazionali anche quando cambia l'inquilino di Palazzo Chigi. Ma proprio per questa ragione sono inaccettabili anche le sole parole capaci di «evocare» il tema del ritiro, parole che finiscono per screditarci alla faccia del mondo (si veda, ad esempio, il New York Times di ieri) e per rendere ancora più pericolosa la vita del nostro contingente, che può diventare bersaglio di nuovi attacchi proprio nella speranza di provocarne il definitivo ritiro. Quando Umberto Bossi esprime l'auspicio di vedere i nostri ragazzi a casa entro Natale parla da padre con il cuore in angoscia. Egli però è anche (e innanzitutto) un ministro ed un leader politico. Egli ha il dovere di valutare con attenzione le parole che pronuncia, poiché deve tenere nel giusto conto il fatto che qualcuno, a Kabul come a Herat, deve rimontare su un «Lince» oggi, domani e dopodomani. I nostri militari non sono mercenari, sono cittadini italiani volontariamente in divisa. Essi debbono sapere che hanno alle spalle istituzioni solide e ferme nel dare un chiaro indirizzo politico ed operativo alle missioni all'estero, pena il fatto di creare disorientamento e rabbia. Ecco perché ogni pur blando riferimento all'ipotesi del ritiro è assolutamente inaccettabile dopo un attentato come quello dell'altro ieri. Il nostro governo parla al mondo ed anche ai terroristi. E poi parla agli italiani ed anche alle famiglie dei caduti straziate dal dolore. Ebbene il governo ha il dovere di parlare con voce unica e salda, possibilmente affidata ai soggetti che ne hanno titolo. La ridda di dichiarazioni, correzioni e precisazioni che abbiamo letto in queste ore non è stato un bello spettacolo. Nella giornata di ieri il governo ha ripreso il filo di una corretta comunicazione, pur continuando a proporre il tema, vago in verità, di un cambio di strategia. Il Capo dello Stato ha usato parole ineccepibili, così come autorevoli esponenti dell'opposizione, quali D'Alema e Casini. Sono fatti positivi, che ci confortano. Ma quel che più conta in questo momento è che il governo mostri una capacità di controllo della situazione con mano ferma. Dobbiamo invece prendere atto di preoccupanti sbandamenti.

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