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Il fedelissimo Menia: "Fini sa che sbaglia"

L'onorevole Roberto Menia

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Esce quasi furtivamente dall'ascensore di Montecitorio riservato solo ai deputati. In realtà è l'ascensore di fatto riservato a chi è diretto all'ufficio del presidente, raro che lo usino altri. Roberto Menia esce e si guarda attorno, come a controllare se è visto da qualcuno. Sottosegretario, Fini si è menizzato? Lui sorride e si lascia scappare: «Non solo lui». Menia non è uno che le manda a dire. Era l'unico che all'assemblea di An del luglio 2008 disse chiaro e tondo che voleva un partito, il Pdl, con regole chiare e stabilite prima, voleva luoghi del dibattito, non voleva lo slittamento verso la Lega. Quello che oggi sostiene Fini. Mentre parlava, quel giorno torrido, tutta la prima fila di An ridacchiava, faceva finta di non ascoltarlo, parlava al telefonino e stabiliva di sciogliere il principale partito di destra. Si mostrava palesemente e teatralmente distratta da quest'omone triestino che sparava bordate nel silenzioso imbarazzo generale. E così accadde anche in quel freddo giorno di marzo in cui An, celebrando il suo congresso, s'avviava a decretare la sua fine. Invece al congresso del Pdl, la settimana successiva, il suo intervento fu messo in scaletta a mezzanotte, quando la sala era vuota. «All'orario dei film porno», corregge lui oggi mentre cerca di divincolarsi dalle domande. Tutti gli davano torto. Ora l'ex leader di An gli dà ragione. Glielo ha almeno rinfacciato? «A chi?». Come a chi? A Fini? «E chi le ha detto che l'ho visto?». Be', onorevole, tutti sanno che quell'ascensore lo prende solo chi va dal presidente: «Ero ad Assisi, sono tornato a Roma, mi trovavo a passare», biascica Menia come uno beccato sul fatto. Onorevole, ma che fa? Il democristiano? «Democristiano a me? Senta, chi vedo sono affari miei. Comunque se l'avessi visto gli avrei sicuramente detto: "Gianfranco, mi fa piacere che ora ti sei reso conto che il Pdl era una monarchia e che noi di An saremmo finiti a fare al massimo i portieri del palazzo"». E se glielo avesse detto, Fini che cosa le avrebbe risposto? «Lo chieda a lui». Vabbè, lei lo conosce bene: che cosa avrebbe risposto? «Be', avrebbe risposto qualcosa tipo: "Lo so, ho sbagliato l'analisi. Non pensavo che sarebbe finita proprio così"». E lei? Non le sarebbe venuta voglia di dire: «Gianfranco, quando dicevi queste cose mi hai lasciato solo come un cane». Menia ci pensa un attimo: «No, non direi così. Ma sicuramente lui non mi direbbe che avevo ragione. Magari bonariamente si potrebbe lasciar scappare un "Roberto, c'avevi preso"». Per un leader sbagliare l'analisi non è proprio una cosa da nulla... «Mi pare una cosa normale, l'importante è correggere la rotta». Comunque per lei è una soddisfazione. Il sottosegretario s'inalbera: «Sì, ma guardi. Quello che più mi fa imbestialire sono quelli che mi pigliavano per il culo allora e oggi firmano le lettere di sostegno a Fini. Mettendoci dentro esattamente le cose che dicevo io dal palco. E quando parlavo, lo ridevano». A chi si riferisce, scusi? «Vada a riprendere le foto di quell'assemblea di An, parlo di tutta la prima fila». Menia, fuori i nomi. «Cominciamo con chi l'ha scritta quella lettera». Italo Bocchino. «Ecco, appunto. Ha fatto la corsa per fare il vicecapogruppo del Pdl. Del Pdl, non so se mi spiego. E ora scrive le lettere contro Berlusconi. io l'avrei fatta scrivere a Flavia Perina». E con chi altri ce l'ha? «Aspetto di vedere quella lettera ipocrita. Leggo le firme e parlo. Comunque, le dico a naso: penso tutte le prime dieci firme. Può stare sicuro che sono esattamente di coloro che erano seduti quel giorno in prima fila». Insomma, questa lettera le pare un errore. «Un errore no. Perché Fini è stato attaccato in maniera veramente infame. E va difeso in ogni modo. Di lui si dice sempre che è freddo e non è vero. L'uomo viene ferito sul piano umano. Immagino ci sia rimasto molto male». L'ha trovato affranto? «Sicuramente non fa salti di gioia. Diciamo così: se l'avessi incontrato l'avrei trovato colpito ma più combattivo di prima». Menia, lei ha firmato? «Agli esponenti di governo è stato proibito. Se fosse stato possibile non avrei firmato, avrei sottofirmato. Avrei scritto: firmo perché ho sempre creduto in quello che c'è scritto qui a differenza di tutti quelli che oggi hanno fatto la corsa per mettere la firma. Ecco, mi fa incazzare questa storia!». Il sottosegretario all'Ambiente alza la voce, si slaccia un po' la cravatta, s'infervora. Prende fiato e aggiunge: «Mi risulta che...». Mi risulta che? «Niente. Mi risulta che... Puntini». E no, Menia, che fa? Parla come un mafioso? «Mi risulta che c'è chi era felice di firmare e chi non lo era tanto». E che vuol dire, scusi? C'è chi è stato costretto? «C'è chi ha firmato e non era tanto contento di farlo. Chi diceva: devo proprio? Chi l'ha fatto e si domandava: avrò sbagliato?». Con gli occhi Robertone cerca l'uscita, nella sua mente calcola la distanza per liberarsi dalla presa degli interrogativi imbarazzanti. E ora? Come se ne esce? «Con la politica», si ferma Menia. Riprende a parlare: «Con la politica alta. Non è una questione di cene e cenette ad Arcore. Bisogna stabilire i luoghi del dibattito, discutere. E Fini deve riprendere la guida dell'ala destra del Pdl, non lasciarla alla Lega». In verità pare abbia preso la guida dell'ala sinistra. Molto a sinistra. «Ma non è vero. Lui dice che se un immigrato vuole diventare italiano, rispettare le leggi e integrarsi deve avere il diritto di farlo. Prenda i cinesi dell'Esquilino oggi? Dobbiamo lasciarli in una comunità separata o integrarli? E possiamo essere noi contrari all'italianizzazione degli immigrati?» Come finirà questa storia? Si dice che nelle prossime ore Berlusconi farà un'apertura? «È quello che si aspetta Fini». E Fini che risponderà? «Lo farà penare un po' e poi accetterà la pace, si vedranno e si chiariranno». Quando? «La settimana prossima. La salutoooo». E fa ciao ciao con la mano.

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