Clandestini, beffata la legge
Fatta la legge, trovato l’inganno. Solo che stavolta a scovare l’inghippo non sono i colpevoli di un reato bensì i giudici. Che si sono messi a fare una sorta di sciopero bianco nei confronti nella legge sulla sicurezza appena varata che istituisce anche una nuova fattispecie: quella di clandestinità. Per ora c’è un piccolo caso. Ma che apre uno squarcio come accadde della legge Bossi-Fini nel 2002, quando alcuni magistrati fecero obiezione di coscienza. Andiamo a vedere da vicino quello che rischia di diventare un nuovo solco lungo la già esistente superstrada delle scappatoie. A Recco, vicino Genova, un giudice di pace ha ritenuto di «non doversi procedere per particolare tenuità del fatto» nei confronti di un clandestino. In pratica, il giudice ligure ha motivato la sua scelta poiché l'imputato era «incensurato, non aveva mai avuto problemi con la giustizia e svolgeva un'attività lecita, seppure in forma irregolare, così che non appariva giustificata l'azione penale nei suoi confronti». E si è aggrappato all'articolo 34 del decreto legislativo 274/2000. Questo articolo, di un testo che regolamenta le funzioni dei giudici di pace, spiega che «rispetto all'interesse tutelato, l'esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, nonché la sua occasionalità e il grado della colpevolezza, non giustificano l'esercizio dell'azione penale». Così però si corre il rischio è che il magistrato si sostituisca al legislatore. Il problema è che la legge sulla clandestinità, nelle sue linee originarie, è stata disegnata proprio da un governo di centrosinistra, con Giuliano Amato ministro dell'Interno e ispiratore delle norme. Il governo di centrodestra non ha certo violentato i principi, ma ha affermato con l'introduzione della legge il reato di «ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato». Nella dinamica, la norma non è certo di stampo reazionario: infatti, non si parla di arresto, ma di un'ammenda da 5.000 ai 10.00 euro, oltre all'espulsione. Dunque, in ossequio alle leggi del'Unione Europea la legge recentemente approvata al Senato (con 157 sì, 124 no e 3 astenuti) rappresenta un deterrente significativo, un disincentivo ai viaggi della speranza, un invito alla regolarizzazione legata al collocamento nel mercato del lavoro ufficiale. Principi inattaccabili nei quali qualcuno ha voluto aprire una crepa. Deputati al ruolo di «guastatori» paiono in questo momento i giudici di pace, coinvolti nel tessuto del controllo proprio dal tipo di sanzione amministrativa. Purtroppo molti di loro non hanno «compreso» o «capito» lo spirito della legge e il dettato della stessa. Proviamo ad «aiutarli» a comprendere con un esempio. Se un cittadino che non è dentista, e tantomeno medico, esercita la professione di odontoiatra non commette un reato specifico quando cava un dente o ottura una carie: semplicemente, non è abilitato al ruolo, non avendo uno status professionale accertato, esigibile e ripettoso delle normative del Paese in cui si trova a operare. E ciò accade nelle grandi città (ma anche in quelle più piccole) alle prese col problema ancora irrisolto della prostituzione in strada. Nella Capitale, ad esempio, la frustrazione delle forze dell'ordine è evidente quando, dopo aver proceduto a identificare cittadine e cittadini privi di permesso di soggiorno, senza un lavoro ufficiale o una giustificazione legata agli studi, e senza dimora, si rivedono rigettare il decreto prefettizio dal giudice. La motivazione è sempre la stessa: prostituirsi in Italia non è un reato. Ma la nuova normativa contesta il reato di clandestinità e non l'operato eventualmente delinquenziale all'interno dello stesso. Eppure i clandestini, perseguiti dalla legge, continuano a farla franca. Con «buona pace» dei giudici.