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Boffo si dimette ma non spiega

L'ex direttore di

Berlusconi contro la stampa

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 Lucida forse sì. Ma non serena, visti gli aggettivi che il direttore del quotidiano cattolico colleziona nella sua missiva. Si va da «smisurato, capzioso, feroce» a «colossale montatura romanzata e diabolicamente congegnata», da «colpi sparati» sopra la sua «testa» in «un attacco sconsiderato e barbarico» alla «pervicace volontà del sopraffattore di darsi ragione anche contro la ragione». Termini a parte, il fatto è che Dino Boffo si è dimesso. Anzi, «è arrivato alla serena e lucida determinazione di dimettersi irrevocabilmente dalla direzione di Avvenire, Tv2000 e Radio Inblù, con effetto immediato». Nella lettera il giornalista condannato per molestie spiega i motivi della sua scelta. «Da sette giorni la mia persona è al centro di una bufera di proporzioni gigantesche che ha invaso giornali, televisioni, radio, web, e che non accenna a smorzarsi. La mia vita e quella della mia famiglia, le mie redazioni, sono state violentate con una volontà dissacratoria che non immaginavo potesse esistere». Un «attacco smisurato, capzioso, irritualmente feroce che è stato sferrato contro di me dal quotidiano Il Giornale guidato da Feltri e Sallusti, e subito spalleggiato da Libero e da Il Tempo», e che «non ha alcuna plausibile, ragionevole, civile motivazione». Boffo parla di «un opaco blocco di potere laicista» che «si è mosso contro chi il potere, come loro lo intendono, non ce l'ha oggi e non l'avrà domani». Si definisce un «libero cronista» e sottolinea come il suo giornale abbia sempre «fatto dell'autonomia culturale e politica la propria divisa», riservando «alle istituzioni civili l'atteggiamento di dialogo e di attenta verifica che è loro dovuto» e cercando «di onorare i diritti di tutti» e di rispettare «il responso elettorale espresso dai cittadini, non mettendo in campo mai pregiudizi negativi, neppure nei confronti dei governi presieduti dall'onorevole Berlusconi». A questo punto Boffo affronta il nodo della sua questione personale, quello che chiama «lo scandalo sessuale inizialmente sventagliato contro di me» e «propagandato come fosse verità affermata». Rende onore all'«onestà intellettuale del ministro Maroni e dei magistrati di Terni», che hanno permesso di chiarire che si trattava di «una colossale montatura romanzata e diabolicamente congegnata». E precisa di essere «incorso in un episodio di sostanziale mancata vigilanza, ricondotto poi a semplice contravvenzione». Se ha fatto uno sbaglio, aggiunge, non è stato quello «che si pretende con ogni mezzo» di fargli ammettere, «ma il non aver dato il giusto peso ad un reato "bagatellare", travestito oggi con prodigioso trasformismo a emblema della più disinvolta immoralità». Boffo sostiene di essere finito nel fuoco incrociato di «una guerra tra gruppi editoriali, tra posizioni di potere cristallizzate e prepotenti ambizioni in incubazione». E si domanda: «Io che c'entro?». Per il direttore di Avvenire , le dimissioni sono «la condizione perché le ostilità si plachino», «un sacrificio per cui valeva la pena». Un gesto «in sé mitissimo» che tuttavia comprende «un grido alto, non importa quanto squassante, di ribellione: ora basta». Restano alcune domande senza risposta. Perché Dino Boffo non ha fatto ricorso (aveva 15 giorni) contro il decreto penale di condanna? Perché parla di «mancata vigilanza» quando invece si tratta di un reato penale? Perché ha parlato di «patacca» quando, malgrado le imprecisioni e anche qualche falsità, un fondo di verità c'era? Perché, infine, non ha chiarito subito tutto? «Bisognerebbe che noi giornalisti ci dessimo un po' meno arie e imparassimo ad essere un po' più veri», conclude Boffo nella sua lettera al cardinale. E, su questo, non possiamo non essere d'accordo.

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