Cerca
Cerca
Edicola digitale
+

L'Italia di Veltroni in "Noi"

Walter Veltroni

  • a
  • a
  • a

La mattina dopo, mentre Francesco setacciava ancora una volta il quartiere, padre e figlio andarono al Giardino zoologico, nel cuore di Villa Borghese. Giuditta amava passare il suo tempo in quel luogo. Le piaceva passeggiare in mezzo ai recinti, mangiare al ristorante Mascagni, di fronte alla grande gabbia in cui uccelli di tutti i colori incrociavano il loro volo. Porgeva timida la nocciolina alla giraffa che veniva a prenderla sul palmo della sua mano, si divertiva con le acrobazie delle scimmie e con il nuotare elegante dei pinguini. C'era solo un posto dove non voleva andare, la gabbia dei gorilla, proprio all'ingresso dello zoo. C'era stata una sola volta ed era uscita piangendo; l'aveva molto scossa la tristezza di quegli animali rinchiusi in uno stanzone con le sbarre e il vetro, seduti in un angolo senza nulla da fare, con gente rumorosa che scattava le foto e rideva di loro. Così Andrea e Giovanni decisero di seguire il medesimo itinerario: si cominciava dagli elefanti e si finiva con la piccola giostra di legno, dopo le gabbie delle scimmie. Era una giostra deliziosa, spinta a mano da un vecchietto gentile. Poco lontano, su una panchina, si potevano fare le foto con un leoncino. Da qualche parte a casa dovevano esserci i loro ritratti, pose un po' imbarazzate vicino a un amichevole cucciolo di felino. Avevano guardato ovunque, senza trovare tracce di Giuditta. Fuori dall'ingresso principale Giovanni aveva preso con decisione la direzione a sinistra e, uscito dal cancello di viale del Giardino zoologico, aveva ancora svoltato a sinistra sul proseguimento di via Aldrovandi. Poi, tenendo Andrea per mano, aveva attraversato la strada. Era una giornata meravigliosa, calda ma senza afa. Arrivarono all'angolo di una stradina e si fermarono sotto la targa di marmo; c'era scritto «Via dei Tre Orologi». «Qui tua madre e io ci siamo dati il primo bacio. Ti porto a vedere il posto preciso. Magari ha pensato di tornarci». Andrea si guardava attorno estasiato. I muri della piccola via senza uscita erano completamente ricoperti di edera rampicante, c'era solo verde. Nessuna macchina e uno straordinario silenzio. Non aveva mai visto nulla di simile. «Qui, vicino a questo piccolo portone, le ho preso la mano. Ti giuro che il cuore mi sembrava uno squadrone di cavalleria all'attacco. Ma fu lei a baciarmi. Forse aveva capito quanto ero imbranato, avrà pensato che con i miei tempi ci saremmo sfiorati dopo tre anni. Allora mi stampò sulle labbra quella meraviglia delle sue. Durò un'ora, dieci ore, un giorno intero. Eravamo appoggiati a quest'edera e non smettevamo più. Siamo tornati tante volte. Guarda quella casa sulla destra, dove la strada finisce. È la casa più bella del mondo. Ci dicemmo che se mai fossimo stati ricchi saremmo andati a vivere lì. Ma erano sogni di ragazzi. Ora mi basterebbe entrare una volta per vederla. Ma questa è la strada del nostro cuore. Forse senza via dei Tre Orologi non ci sareste né tu né Alberto», concluse sorridendo. Fecero un lungo giro di Roma, seguendo una specie di itinerario del cuore che Giovanni aveva fissato su un foglietto. (...) In quei giorni si era diffusa la notizia di un grave peggioramento della salute di Giovanni XXIII, il papa che Giovanni amava enormemente e che affascinava anche Giuditta. Erano stati per caso a Roma con i bambini nei giorni in cui si apriva il Concilio Vaticano II e il capofamiglia aveva convinto tutti ad andare quella sera in piazza San Pietro. Andrea ricordava l'emozione di tante persone con le fiaccole che illuminavano la piazza. Poi si era aperta una finestra lontana e da quel piccolo punto di luce avevano sentito un uomo buono pronunciare parole che nessuno di loro avrebbe mai dimenticato: «Cari figlioli, sento le vostre voci. La mia è una voce sola, ma riassume la voce del mondo intero. Qui tutto il mondo è rappresentato. Si direbbe che persino la luna si è affrettata stasera - osservatela in alto - a guardare questo spettacolo. Lì è che noi chiudiamo una grande giornata di pace. Di pace». E poi: «La mia persona non conta niente, è un fratello che parla a voi diventato padre per la volontà di nostro Signore, ma tutti insieme, paternità e fraternità, è grazia di Dio. Tutto, tutto! Continuiamo dunque a volerci bene, a volerci bene così, guardandoci così nell'incontro: cogliere quello che ci unisce, lasciar da parte quello, se c'è, qualche cosa che ci può tenere un po' in difficoltà. Niente. Fratres sumus». A Giovanni, che aveva vissuto il tempo dell'odio e della guerra, erano sembrate le parole di un mondo nuovo. E anche Giuditta si era commossa. Lei, da ebrea, aveva colto in quel Fratres sumus un invito a trovare una nuova unità, capace di rispettare le differenze e di riconoscerle. La sua gente era stata sterminata in nome di una diversità che neanche la Chiesa era stata in grado di tutelare negli anni delle leggi razziali, o quando definiva Mussolini «l'uomo inviato dalla divina Provvidenza». Ora si veniva annunciando un tempo nuovo, un tempo di incontro, una tensione a trovare quello che unisce. Quel piccolo punto di luce rappresentava una rivoluzione, per tutti. Ora nella piazza c'erano fedeli che pregavano per quel vecchio pontefice in agonia. Tra loro, dietro le colonne, divisi da una parte e dall'altra della piazza, Andrea e il padre cercavano la loro donna perduta.

Dai blog