Onore al merito.

Cheai criteri di merito nella scuola italiana ha sempre tenacemente e coerentemente creduto. E che adesso prova a introdurli nel Moloch del sistema universitario. Operazione ardua e temeraria, quanto altre mai, che se solo riuscisse in minima parte, evocherebbe il prodigio di un miracolo. Onore al merito delle università «meritevoli». La cui classifica è stata resa nota dall'apposita commissione ministeriale che distingue, con un punteggio algebrico, quelle positive da quelle negative. Sia pure nella consapevolezza che una riforma in senso meritocratico dell'università non è cosa da potersi risolvere in pochi giorni o pochi mesi, non possiamo tuttavia non rilevare che i criteri elaborati per assegnare giudizi premiali o punitivi ai diversi atenei avrebbero bisogno di una revisione profonda o di una messa a punto più accurata. Sta di fatto che questa prima graduatoria ministeriale - sulla base della quale saranno proporzionalmente distribuiti i (pochi) fondi pubblici a disposizione del sistema pubblico di istruzione universitaria - suscita non poche perplessità alla luce di semplici riscontri di esperienza e buon senso. E non a caso solleva polemiche e proteste da parte dei rettori delle università «bocciate», magari dettate da risentimenti corporativi e localistici, ma non tutti ingiustificate. Prendiamo gli indicatori di «qualità della didattica», in astratto ineccepibili, in pratica ambigui e fuorvianti. Il tempo necessario a un laureato per trovare lavoro: tiene conto dei tanti piccoli centri nati per esaudire le esigenze degli studenti-lavoratori che un'occupazione ce l'hanno già? L'utilizzo nei corsi di docenti di ruolo, secondo i «requisiti minimi» stabiliti nelle miniriforme degli anni scorsi: e ci mancherebbe pure che, dopo l'infornata di professori e ricercatori nei concorsi omnibus degli anni precedenti, si ricorresse all'apporto oltre misura di incaricati esterni. La produttività negli studi calcolata sul numero degli esami dati dagli studenti al secondo anno: non può essere facilmente riconvertita in un indicatore di lassismo anziché di selettività nella valutazione dei candidati, secondo una politica diffusa e dissennata di demagogia accademica, che serve pure a ottenere giudizi lusinghieri nelle schede di valutazione degli studenti? C'è poi la ricerca, tradizionalmente la Cenerentola dell'università italiana. Qui i criteri adottati sembrano meno arbitrari, si prestano meglio a rilevazioni tecniche, in questo senso «oggettivi»: come, ad esempio, il «quotation index» (l'indice di citazioni nelle riviste internazionali) o i progetti finanziati con fondi europei o del Ministero stesso. Così fan tutti: i paesi più evoluti. Ma proprio questo è il punto. Non si possono importare automaticamente meccanismi altrove sperimentati da tempo, senza gli adeguamenti necessari a evitare crisi di rigetto in un contesto culturale come il nostro: nel quale è ancora forte la distinzione fra ricerca teorica e ricerca applicata. Eppur si muove, l'importante è che qualcosa si muova: e questi provvedimenti vanno nella direzione giusta. Ma perché ci sia un vero salto di qualità, occorre aderire al principio che anche nel mondo della scuola, e in particolare dell'università, debbano essere introdotti gradi significativi di competizione. La meritocrazia senza mercato non ha senso. Le università migliori le scelgono gli studenti nel proprio interesse: e per questo sono disposte a pagare quanto serve.