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I nostri soldati vogliono portare a termine la missione

Un momento dell'addestramento dei Rangers italiani ad Herat (Afghanistan)

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Ora lo sanno tutti, in Afghanistan si muore. Ecco di colpo crollare tutte le ipocrisie di missioni di pace, caramelle ai bambini e buonismo da salotto. In Afghanistan la situazione è complessa e si combatte, lo diciamo con chiarezza. I nostri militari sono impegnati, al pari dei loro colleghi delle altre nazioni mobilitate in un'azione offensiva per limitare le capacità dei gruppi di insorgenti. La minaccia nel Paese è oggi rappresentata da una serie di diversi attori quali guerriglieri talebani, bande di criminali, trafficanti di droga e armi ed infine i signori della guerra. Contro tutte queste realtà il debole governo di Hamid Karzai può fare ben poco. L'esercito nazionale, la polizia e le guardie di frontiera sono ancora allo stato embrionale. Per questo il supporto militare della Nato non solo è importante ma essenziale. La popolazione locale è assolutamente esausta della guerra. Gli afghani vogliono la pace e contestualmente ci vogliono veder andare via. Diciamolo sinceramente, il bilancio della comunità internazionale in questo contesto è ampiamente deficitario. Pochi soldi investiti, e spesso ancor peggio spesi, iniziative tese a "promuovere la democrazia" senza prima comprendere le esigenze di sopravvivenza e di microeconomia locale, pochissimi soldati per un'area che ne richiederebbe almeno, e sottolineo almeno, il triplo, caveat nazionali irrealistici per il contesto di operazione e soprattutto assenza di una strategia di lungo termine per lo sviluppo economico e politico. Ora siamo in procinto delle elezioni presidenziali, non certo un passo definitivo ma comunque importante per il cammino dell'Afghanistan. La posta in gioco è il controllo del Paese, soprattutto delle aree rurali, che ben pochi soldati Nato hanno visto in questi anni. Semplice immaginare come in una democrazia nascente sia facile per chi sino a poco tempo fa governava con il terrore il paese, provare ad allargare la faglia tra Hamid Karzai e l'afghano medio. Regole comuni quali i diritti umani, la lotta alla corruzione dilagante, il rispetto delle minoranze non sono cose che si possono apprendere in poco tempo. Ma oggi è proprio il tempo che inizia a scarseggiare. Abbiamo iniziato a fare le cose giuste ma con anni di ritardo. L'attacco ai nostri soldati si inserisce esattamente in questo contesto. I paracadutisti della Folgore operano con professionalità ed estrema efficacia proprio nel difficilissimo ambito della Regione Ovest dell'Afghanistan. L'attività è come un gioco di scacchi. I nostri militari negano agli insorti aree di transito e le rotabili, permettendo nel contempo un aumento degli scambi commerciali. Resa sicura un'area vengono affiancati dalle forze di sicurezza afghane e poi da loro interamente sostituiti allorquando il contesto sia ritenuto sicuro. A questo punto, di nuovo insieme alle forze afghane, si riparte verso una nuova zona. In una manovra ovviamente lenta ma che è l'unica che garantisce lo scopo della missione, ridare l'Afghanistan a chi lo vuole governare con la legalità. I nostri in questo eccellono, ma come drammaticamente evidente tutto questo comporta dei rischi, dei terribili rischi. Ma siamo qui con una missione, i nostri soldati non chiedono altro di poterla portare a termine. I Parà della Folgore non sono abituati alla sconfitta. Andrea Margelletti Direttore del Ce.S.I.

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