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Adesso Ignazio rinunci alla sua candidatura

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Labomba, come si sa, è esplosa all'interno del Partito democratico. Poteva essere un'occasione per un confronto serio, data l'estrema delicatezza del tema. Invece per responsabilità di Ignazio Marino si è verificata la rottura di un argine. Parliamo di un argine fondamentale, quello che divide anche la più dura delle polemiche da un senso generale di correttezza e responsabilità. Di fronte al «caso Bianchini», egli ha giocato infatti la carta sbagliata e ha dato di sé l'immagine di un outsider senza scrupoli. È un fatto decisamente grave, poiché attribuire ai dirigenti nazionali e locali una sorta di «culpa in vigilando» ferisce la coscienza collettiva del partito. Quali sono le regole in tali circostanze? Come sempre, laddove insorge una questione politica, serve a poco invocare statuti o regolamenti. Tuttavia è necessario rendere chiaro agli iscritti e alla pubblica opinione che non rientra nella dialettica congressuale lo sfruttamento di una grave e penosa vicenda come quella riguardante un uomo dalla personalità dissociata - e dunque malato - capace di nascondere la sua attitudine criminale dietro un irreprensibile comportamento individuale. Spiace che sia proprio un medico a trascurare questo elemento, forzando la logica e il significato degli eventi allo scopo di mettere sotto scacco la classe dirigente del suo partito. Se adottassimo questo criterio irragionevole e strumentale dovremmo allargare la sfera delle accuse, fino a lambire l'intera gamma delle responsabilità sociali. E qualche segnale si è pure avuto nella congerie d'interviste e prese di posizioni. Possiamo far finta di niente? Ma di questo passo, in assenza di reazioni adeguate, corriamo il rischio di rilanciare attraverso le dinamiche di partito un feroce sentimento moralista e giustizialista dagli esiti davvero imprevedibili. Difatti non sarebbe incongruo, dopo una rapida analisi, dedurre che l'imprinting di una posizione congressuale costituisca il parametro di una visione dei rapporti civili e perciò, alla stretta finale, della democrazia in quanto tale. Queste succinte considerazioni dovrebbero spingere Ignazio Marino a riconoscere pubblicamente l'errore commesso con la sua requisitoria avventata. Dovrebbe farlo nell'unico modo accettabile in questi casi, e cioè ritirando la sua candidatura alla segretaria nazionale. Purtroppo, una volta imboccata la strada sbagliata, bisogna avere l'intelligenza e l'umiltà di tornare indietro. Si fa così quando il proprio ruolo investe il presente e il futuro di una forza politica. Se infatti il dibattito dei prossimi mesi dovesse impiastricciarsi ulteriormente a causa di queste polemiche, sarebbe troppo alto il danno da sopportare per il Partito democratico. Verrebbe meno il senso di un'operazione, di per sé coraggiosa, che nasce all'insegna di un bipolarismo maturo nel quale può crescere e imporsi la funzione di un moderno partito riformista. L'ansia rovente e corrosiva di Ignazio Marino è fuori da questo perimetro. *Senatore del Pd

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