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Però la gara al vertice è un segno di vitalità

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Ma non credo si possa liquidare tanto facilmente il contenuto di novità che arriva dalla sfida per la guida del Partito Democratico. Stiamo infatti assistendo ad un fatto nuovo per la politica nostrana (almeno nei tempi recenti). Siamo cioè all'inizio di un'autentica competizione, nella quale tre candidati almeno (di cui due nettamente favoriti, cioè Bersani e Franceschini) si avviano ad un trimestre di confronto e di scontro per ottenere dal congresso e dai gazebo la guida del Pd, che, per quanto disastrato, è pur sempre il secondo partito d'Italia. L'evento non è affatto secondario e per capirlo basta ripercorrere brevemente la storia della sinistra italiana dal crollo del muro di Berlino in poi. Quando Occhetto lancia la sfida per il nuovo nome siamo al 1989. Con qualche traversia interna lui fonda il Pds, che viene però sbaragliato da Berlusconi alle elezioni del '94. Si apre a quel punto un confronto interno, che porta D'Alema alla segreteria (preferito a Veltroni), ma soprattutto si avvia una stagione lunga 15 anni (1994-2009) nel corso della quale tutti i cambi al vertice vengono sostanzialmente decisi in modo oligarchico, senza mai arrivare ad un confronto congressuale. Ecco quindi che la sfida Bersani-Franceschini (con Marino terzo candidato da non sottovalutare) assume caratteri di una certa novità, anche perché gli stessi schemi applicati nel Pds (poi Ds) sono stati in vigore nella Margherita(l'altro partito che si è fuso nel Pd), dove tutti i passaggi politici salienti sono stati decisi da una ristrettissima cerchia di dirigenti, sotto l'occhio vigile e severo (da alpino abruzzese qual è) di Franco Marini. Mi si potrà dire che questa sfida per la segreteria è proprio il segno della debolezza di tutti gli attuali dirigenti di vertice, a cominciare da D'Alema, che mai e poi mai si sarebbero infilati in questa sfida di loro iniziativa. Si potrà obiettare che comunque le due candidature principali sono di assoluta continuità con gli assetti di vertice degli ultimi tre lustri, mentre invece ci vorrebbe ben altra scossa per tentare di suscitare qualche entusiasmo nell'elettorato deluso. Si vorrà affermare che ancora non si capisce dov'è la differenza tra questo e quel candidato, poiché nessuno ha finora avuto il coraggio di dire qualcosa di diverso dagli altri. Si metterà in evidenza che la provenienza geografica tanto di Bersani quanto di Franceschini, cioè l'Emilia Romagna, finisce per essere la prova del restringimento drammatico del voto a sinistra, che rischia di fare davvero del Pd un partito «appenninico», come argutamente ha osservato Giulio Tremonti. Ma non si potrà certo sostenere che a sinistra nulla sta accadendo, perché invece un processo di contesa della leadership è comunque virtuosa manifestazione di vitalità. In democrazia si cambia leader quando serve, non quando lo chiedono politologi o giornalisti. Ecco perché non ha senso porre la questione della successione a Berlusconi nel Pdl o a Bossi nella Lega. Il loro ruolo è saldissimo ed i risultati elettorali assai lusinghieri. Ciò che conta è capire come si agisce quando la questione si pone, anche perché, come dimostrano Casini e Di Pietro, i partiti italiani vivono una stagione di profonda identificazione con il loro capo. Insomma a sinistra le cose vanno male, anzi malissimo. Questa gara per la segreteria però può essere occasione di ripartenza, se saggiamente sfruttata. E comunque deve funzionare da monito per tutti.

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