Il governo tira ma questo Pdl non va
Quando si fusero la Motta e l'Alemagna i giornali si chiedevano quale gusto di panettoni sarebbe prevalso e un vispo cronista azzardò che il nuovo avrebbe avuto i difetti di entrambi. Appunto, vale anche in politica: il PdL ha tutta l'approssimazione e la volatilità dell'avventura originaria di Forza Italia senza il guizzo della simpatia e del carisma che Berlusconi ha prestato al governo togliendolo al partito di cui non si occupa più. Di Alleanza Nazionale il nuovo partito ha preso una certa tendenza a dividersi in correnti, senza il passo più svelto di Fini sulla via di una destra moderna. Il sottinteso è una separazione netta tra partito e governo, laddove è il secondo a fare opinione nel bene e nel male, col PdL in veste di custode dell'intendenza e dell'ordinaria amministrazione di liste e affari elettorali. Non è una critica ai tre coordinatori, vittime come e più di tutti dell'ibrido di un partito con una democrazia interna post-datata come un assegno; né è colpa di nessuno se comporre un partito plurale significa farsi carico delle esigenze di tutti. Questa è la politica in tutte le democrazie; qui, invece, si applica quello che a Napoli si enuncia come l'articolo V, «chi tiene in mano ha vinto», nel senso che si sono scelti sindaci, presidenti di provincia, assessori e quant'altro, senza mai preoccuparsi di dare soddisfazione a quanti avevano corso l'avventura. Tolgo il disturbo di obiettarvi se parlo perché non ho avuto nulla. È proprio così: ho sciolto per primo il mio piccolo partito, pur sempre l'ultima Democrazia Cristiana presente in Parlamento, e pur sempre il partito che ha permesso a Berlusconi di pareggiare le Politiche del 2006 rimettendosi in corsa. Da Berlusconi noi abbiamo ricevuto amicizia e gratitudine compresa la mia presenza al governo in una squadra tutta molto più qualificata di me. Dal partito, invece, abbiamo ricevuto il messaggio di un fastidio infinito per il ronzio molesto di insetti democristiani o di altre forze politiche cosiddette minori. Ci si è fatto capire con chiarezza che «fuori dalla Chiesa non c'è salvezza», laddove le Chiese ammesse sono quella forzista e quella aennina non più del tutto finiana. Per noi democristiani è andata ancor peggio: il combinato disposto dell'allontanamento dell'Udc con una tendenza interna al PdL di favorire il frazionamento dei democristiani autorizza il sospetto che nei nostri paraggi si applichi una sorta di nuovo principio per cui «i democristiani vanno uccisi fin da piccoli». Non passerò l'autunno e nemmeno l'estate a piantare grane, consumare credibilità comuni in polemiche inutili per tutti. Abbiamo un governo che tira e un presidente del Consiglio che nessuna oscura campagna può scalfire nella credibilità che i sondaggi documentano. Se questo patrimonio debba essere interpretato politicamente solo dal PdL o da una coalizione plurale è questione che solo Berlusconi può chiarire. Se nel PdL siamo di troppo non è un dramma, né per noi né per il PdL. Tra un Popolo delle Libertà che ha vinto, ma non stravinto, e i Democrat che litigano sulle macerie c'è una prateria che una sola nostra decisione può trasformare in suolo edificabile di una forza capace di agganciarsi direttamente ai successi del governo, con la variante di declinare una generazione veramente nuova in una politica italiana che propone sul versante moderato gli stessi leaders oramai da venti anni.