Per eleggere il leader del Pd serve uno scienziato
{{IMG_SX}}Il regolamento approvato venerdì dalla direzione del Pd, il testo «sacro» che regola modi e tempi per l’elezione del prossimo segretario, è più complicato di un libro di meccanica quantistica. Qualcosa a metà tra l'equazione di Schrödinger e quella di Nernst Planck. Se non fosse morto, si potrebbe sospettare che Albert Einstein ci abbia messo del suo. Invece no. È tutto merito dei Democratici. E di uno statuto che all'articolo 9 comma 2 stabilisce che il procedimento elettorale per scegliere segretario e assemblea nazionale si articoli in due fasi: la convenzione nazionale (la parola congresso era troppo «vecchia») e le primarie. Una cosa che, come ha ricordato Franco Marini, «non avviene in nessun Paese del mondo». Normalmente, infatti, ci si rivolge ai cittadini per scegliere il candidato premier, non certo chi guiderà il partito. Fosse solo questo. Sfogliando il regolamento, infatti, le cose peggiorano. A cominciare dalla presentazione della candidature che debbono essere sottoscritte da «almeno il 10% dei componenti dell'Assemblea Nazionale uscente (che è cosa diversa dalla Convenzione ndr) oppure da un numero di iscritti compreso tra 1.500 e 2.000, distribuiti in non meno di cinque regioni, appartenenti ad almeno tre delle cinque circoscrizioni elettorali per il Parlamento europeo». Se state cercando di capirci qualcosa fermatevi. Il vero colpo di classe è l'articolo 8 comma 2 che, tra l'altro, ripropone fedelmente l'articolo 9 comma 6 dello statuto (già che era così chiaro perché cambiarlo?). Ecco testualmente cosa vi è scritto: «Risultano ammessi all'elezione del segretario nazionale i tre candidati che abbiano ottenuto il consenso del maggior numero di iscritti purché abbiano ottenuto almeno il 5% dei voti validamente espressi e, in ogni caso, quelli che abbiano ottenuto almeno il 15% dei voti validamente espressi e la medesima percentuale in almeno cinque regioni o province autonome». Vi siete persi? Come biasimarvi. Ma la cosa veramente comica è che, nonostante tutto, questo complicatissimo procedimento non garantisce l'elezione del segretario. Infatti, qualora nessuno dei candidati in corsa per le primarie riuscisse ad ottenere la maggioranza assoluta, la palla nelle mani dell'Assemblea Nazionale che, a questo punto, «indice il ballottaggio a scrutinio segreto tra i due candidati collegati al maggior numero di componenti l'Assemblea e proclama eletto segretario il candidato che ha ricevuto il maggior numero di voti validamente espressi». Respirate profondamente. È finita. Anche se, a questo punto, la domanda nasce spontanea: ma non era molto più semplice eleggere il segretario all'interno della Convenzione nazionale? Poco democratico? Bene, sceglietelo con le primarie. Ma che senso ha creare questo complicatissimo meccanismo? Il bello è che ora tutti si lamentano. «Abbiamo uno statuto adottato un anno e mezzo fa e certamente andrebbe modificato - spiega Pier Luigi Bersani -, ne discuteremo al congresso. Per adesso il congresso lo facciamo con quelle regole un po' barocche». «Il congresso del Pd deve avvenire in fretta e deve cambiare lo statuto del partito - gli fa eco Sergio Cofferati -. Noi parliamo di congresso, ma lo statuto in vigore non prevede neppure il congresso, non sta né in cielo né in terra, parla solo di elezione diretta del segretario». Eppure basta tornare con la mente al 16 febbraio dello scorso anno. In quell'occasione, nei padiglioni della Nuova Fiera di Roma, l'assemblea costituente del Pd approvò lo statuto. Certo, non c'erano tutti i 2.850 delegati, ma qualcuno comunque c'era. Non potevano accorgersene subito di quello che avevano scritto?